venerdì 25 ottobre 2024

Storia di una mandibola di mastodonte

di Gualtiero Accornero

Torino, 20 settembre 2022

Descrivere un reperto fossile

Prima di iniziale questa bella storia, occorre precisare che in paleontologia, per valorizzare scientificamente un reperto fossile, è necessario che questo venga accompagnato da una "etichetta" descrittiva. Oltre alla data del ritrovamento ed il nome del suo scopritore, tale etichetta deve contenere l'indicazione esatta del luogo in cui è stato ritrovato. Solo attraverso a questo dato si può risalite al contesto geologico che è indispensabile per poter datare il reperto e risalire alla tipologia di sedimenti in cui il fossile si è formato.

Attraverso l'esame sedimentologico e paleontologico delle rocce sedimentarie che contengono un fossile (e solo queste di norma possono contenere dei fossili) è infatti possibile ricostruire l'ambiente originale in cui questo viveva. Anche la data del ritrovamento e il nome dello scopritore sono importanti in quanto permettono di collocare il reperto "storicamente". La mancanza di tutte queste indicazioni (specialmente quella della località) rende il reperto praticamente "inutile" dal punto scientifico che in effetti diventa solo un mero oggetto da esposizione.

La mandibola di mastodonte di cui si parla apparteneva a questa categoria di fossili "sconosciuti".

Due parole sui mastodonti

La parola "mastodonte", termine ormai scientificamente desueto, di valore indicativo e non sistematico, deriva dai termini in greco antico mastos e odon, e significa letteralmente "dente a forma di mammella", per la sagoma della corona e delle radici dei suoi molari. Il nome di questi proboscidato estinto fu introdotto dal grande naturalista francese George Cuvier (1768-1832). Questi esseri sono spesso raffigurati con un folto mantello lanoso, simile quello dei mammut, ma non esistono prove paleontologiche che lo affermino.

I mastodonti fanno parte di quella categoria di mammiferi detti pachidermi, termine che significa "dalla pelle spessa" (dal greco pakhýs = grosso, grasso e dérma = pelle), che accomuna animali non necessariamente imparentati tra di loro, come elefanti, ippopotami e rinoceronti, questa suddivisione non ha quindi valore tassonomico.

Sono animali estinti la cui scomparsa avvenne contemporaneamente a quella di molti altri animali appartenenti alla cosiddetta Megafauna del Pleistocene a causa dei grandi mutamenti climatici dall'era glaciale del Quaternario, specialmente nel Pleistocene superiore, durante il quale il clima in alcune regioni oscillò rapidamente di molti gradi centigradi.

Appartengono sistematicamente ai Proboscidati (ordine dei Proboscidea), come gli attuali elefanti, a cui erano molto simili. Dato che alcune forme erano molto grandi, nel tempo, il significato popolare del termine "mastodonte" è diventato d'uso per indicare un animale o un oggetto di grandi dimensioni, dando poi luogo all'aggettivo "mastodontico".

Vissero tra Pliocene e Pleistocene, principalmente nella parte orientale del Nord America, da qui deriva infatti il loro nome specifico Mammut americanum. Per questa denominazione la loro classificazione tassonomica può portare a confusione, appartengono infatti alla famiglia Mammutidae (rappresentata dal genere Mammut). Non sono però da confondere con i mammut, proboscidati più conosciuti, simbolo dell'ultima era glaciale, che invece appartengono alla famiglia Elephantidae e sono rappresentati dal genere Mammuthus.

In effetti tutti questi grandi mammiferi si assomigliano molto, ma differiscono in particolare nei loro grandi molari.

Nel nostro caso si parla di una mandibola del mastodonte chiamato Ananco, italianizzazione del genere Anancus (il termine anancus indica l'aspetto delle zanne dritte e significa appunto "senza curva") che è vissuto tra la fine del Miocene e l'inizio del Pleistocene in Europa, Africa e Asia. L'aspetto dell'Ananco richiamava moltissimo quello degli odierni elefanti, con i quali però non è direttamente imparentato.

Classificazione in base ai denti

Sono le caratteristiche dei molari che ci permettono di poter distinguere facilmente gli Elefanti dai Mastodonti.

Gli Elefanti attuali hanno due zanne, dette difese (denti mascellari che si sono modificati con l'evoluzione), e quattro molari (due superiori della mascella e due inferiori della mandibola) con cui triturano il cibo.

Col crescere dell'età i molari si consumano e vengono sostituiti con nuovi, più grandi dei precedenti, che lentamente spingono in avanti e in fuori i denti ormai consunti. Nella vita degli elefanti le dentizioni sono sei, finite queste i denti iniziano a consumarsi ed infine non sono più in grado di masticare il cibo, peggiorano il proprio stato e cadono in preda a malattie o ai predatori, e poi muoiono di fame.

Nell’uomo esistono solo due dentizioni, i denti spuntano dalla parte superiore della mascella e inferiore della mandibola, per sostituire quelli da latte, per poi crescere fino poi ad usurarsi con l'età. Anche noi, come negli elefanti, se non esistessero i dentisti, saremmo destinati a morire di fame.

I molari degli Elefanti

I denti degli elefanti nascono dal fondo della bocca e si spostano in avanti, come su un nastro trasportatore. Ogni molare è composto da una serie di "lamine" trasversali di smalto, poste una accanto all'altra. Nella loro vita producono sei serie di denti, con ogni serie che spinge in avanti dalla parte posteriore della mascella per sostituire i denti usurati nella parte anteriore. Finite queste sei dentizioni, i denti iniziano ad usurarsi.

I molari dei Mastodonti

La particolare dentatura dei mastodonti in effetti può considerarsi più "primitiva" di quella degli attuali elefanti e dei loro parenti estinti, i mammut. I loro molari, come riporta l'illustre Eugenio Sismonda (1815-1870), professore di Storia Naturale dell’Università di Torino e appassionato paleontologo, sono formati cadauno di un pezzo solo, presentano radici con un aspetto simile alle mammelle delle mucche (cosa che aveva e ispirato il Cuvier ad assegnarne il nome, come detto sopra), sono dotati di cuspidi (come i tapiri ed i maiali) ed erano più adattati al taglio che alla triturazione.


I disegni del Cuvier

Nella storica pubblicazione del Cuvier Recherches sur les ossemens fossiles de quadrupèdes - Tomo II del 1812, nella sezione Sur le Elephans Vivanns et Fossiles, in cui viene descritto il Mastodonte, compaiono questi due disegni di molari rispettivamente, a partire dall'alto, di Elefante attuale e di Mastodonte, che chiaramente permettono di identificare le differenze morfologiche delle due tipologie.

Molari fossili di Mammut e Mastodonte

Le differenze morfologiche tra i due molari sono chiaramente visibili in questi due fossili di Proboscidati del Pleistocene rispettivamente, a partire dall'alto, di Mammut (Mammuthus primigenius) proveniente dalle spiagge del Mare del Nord (Olanda) e Mastodonte, proveniente dalla Patagonia. Gli esemplari sono esposti nella collezione paleontologica del Museo di Storia Naturale Don Bosco di Valsalice di Torino.

I mastodonti del Piemonte

L'area del Piemonte, in particolare la zona dell'Astigiano, presenta la caratteristica di essere ricca di resti fossili di conchiglie marine che testimoniano l'antichissima presenza dal cosiddetto "Mare Padano" che, alla fine del Pliocene (circa 1,8 milioni di anni fa), si "ritirò" completamente lasciando posto alla pianura. Durante la fase di ritiro la futura Pianura Padana era caratterizzata da un clima caldo umido, con foreste e ambienti paludosi che potevano ricordare quello americano dei bayou della attuale Louisiana.

I fiumi provenienti dall'arco alpino, già praticamente formato e simile a quello attuale, buttandosi nel Mare Padano in fase di ritiro, creavano ambienti deltizi e paludosi a volte soggetti a fasi alluvionali. I sedimenti che si formavano nelle pianure alluvionali le troviamo descritti più avanti dal professor Sismonda quando riferisce della scoperta del Mastodonte nella sua pubblicazione: "... argilla quasi plastica coperto da altri strati di sabbia e di ghiaia".

Questa particolare serie di sedimenti costituisce quello che i paleontologi in un recente passato denominarono con termine di “Villafranchiano” che attualmente ha perso valore geologico e indica solo un ambiente particolare.

La parola deriva dal paese di Villafranca d'Asti, ed identifica una serie di strati sedimentari caratteristici di queste zone che hanno fornito fossili di mastodonti, ippopotami, rinoceronti (ricordo quelli ritrovati rispettivamente a Dusino e Roatto) e vegetali che testimoniano la presenza di un clima più caldo di quello attuale.

In passato i ritrovamenti di resti scheletrici fossili di mastodonti sono stati diversi. Quello più famoso riguarda due esemplari completi ritrovati nel 1881 a Ca’ dei Boschi di Valle Andona (Asti) che oggi si trovano al Museo Geologico e Paleontologico Giovanni Capellini di Bologna. Uno di questi, esposto nella sala Elefanti e Balene, lungo 7 metri e alto 3, costituisce da sempre un forte richiamo per i visitatori.

A fine Ottocento a Villafranca d'Asti nella cava di argilla Fornace R.D.B., oggi ormai scomparsa, al cui posto è stato installato un grande impianto fotovoltaico, fu recuperato un altro mastodonte classificato come Anancus arvernensis.

Esattamente il 9 aprile 1954, nella regione Roetto (o Rovatto), del comune di Mombercelli, in provincia di Asti, venne alla luce quello che fu battezzato come il Mastodonte di Mombercelli: si tratta di uno scheletro fossilizzato quasi completo di un Anancus arvernensis di piccole dimensioni.

Per quanto riguarda il territorio di San Paolo Solbrito, si ricorda il ritrovamento storico avvenuto nella metà dell'Ottocento, durante la realizzazione del tratto di ferrovia della Torino - Genova. Le operazioni di sbancamento e scavo tra Dusino e Villafranca, nella vallata del rio Traversola, presso il "villaggio Solbrito" (così al tempo era chiamato), portarono alla luce i resti dello scheletro quasi completo di un mastodonte. Non esistono purtroppo indizi sicuri per stabilire l’esatto punto di ritrovamento dello scheletro.

Eugenio Sismonda, professore di Storia Naturale dell’Università di Torino e appassionato paleontologo, sul finire del settembre del 1849, portò alla luce quel fossile straordinario, scoperto casualmente, che classificò come Mastodon angustidens (Cuvier 1806). Nella sua memoria del 1851 dal titolo Osteografia di un Mastodonte Angustidente, il professor Sismonda racconta quanto segue:

"La spoglia giaceva sopra uno strato di argilla quasi plastica coperto da altri strati di sabbia e di ghiaia, alla quale malaugurata giacitura devesi appunto il cattivo suo stato di conservazione; l’acqua infatti che da tanti secoli piovve e per altra via si radunò in quel sito, e che dopo aver attraversato gli strati di sabbia e di ghiaia non poté liberamente farsi strada attraverso quelli d’argilla, mantenne tanta umidità attorno al detto scheletro, che alla perfine le sue parti anche le più resistenti, come le zanne, i femori, gli omeri ecc. andarono quasi quasi in isfacelo, locché ne rese difficilissima l’estrazione, e ci fa di più lamentare la perdita di alcune delle ossa larghe, di cui ridotte in una specie di poltiglia osservai io stesso le tracce incorporate e sciolte, sto per dire, nel terreno medesimo".

Fortunatamente il recupero dello scheletro fu seguito da bravi geologi, infatti Sismonda scrisse: "se opera del caso è la sua scoperta, opera d’illuminato buon volere è quella che lo portò a salvamento. I lavori di scavo per liberare il mastodonte dai sedimenti che lo coprivano durarono venti giorni e quattro mesi ci vollero per pulire, essiccare e rinforzare le ossa per rimettere per quanto era possibile a suo posto migliaia di frantumi e, con singolare maestria, rendere questo scheletro nello stato in cui io lo descrivo".

Sismonda continua poi: "di quella specie fossile rinvenutasi venne annunziata al pubblico da vari giornali italiani e stranieri".

Il mastodonte di San Paolo Solbrito attualmente si trova nelle collezioni dell’ex Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Torino gestito dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e purtroppo non è esposto al pubblico.

Lo storico mastodonte di San Paolo Solbrito. Disegno originale del Mastodon angustidens trovato alla fine del settembre del 1849 lungo la ferrovia tra Dusino e Villafranca, nei pressi di San Paolo Solbrito, descritto da Eugenio Sismonda nella sua memoria Osteografia di un Mastodonte Angustidente del 1851 (Memorie della reale Accademia delle Scienze di Torino, serie 2., tomo XII., 1852, pp. 175 - 245).


Il mastodonte di Ca' dei Boschi di Valle Andona. Scheletro del mastodonte completo ritrovato nel 1881 a Ca’ dei Boschi di Valle Andona (Asti) esposto al Museo Geologico e Paleontologico Giovanni Capellini di Bologna. Costituisce da sempre un forte richiamo: è esposto nella sala Elefanti e Balene, è lungo 7 metri e alto 3, si notano le lunghissime zanne.


Ritrovamento della mandibola del mastodonte di San Paolo Solbrito

Era esattamente sabato 24 agosto del lontano 1974. Già da qualche anno ero appassionato di paleontologia ed in procinto di iscrivermi all'università alla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali per studiare seriamente le materie che amavo.

Un conoscente di Asti, che lavorava come impiegato nel piccolo Comune di San Paolo Solbrito, anche lui appassionato di fossili, mi segnalò che in una piccola cava di sabbia e ghiaia, nei dintorni del paese, i cavatori avevano appena estratto una mandibola di un mastodonte che era stata depositata in una stanza del Municipio. Il giorno dopo subito mi precipitai a San Paolo dove vidi in Municipio lo splendido fossile riposto in un angolo, appoggiato ad un termosifone e avvolto in alcun giornali. Si trattava di una mandibola probabilmente di Anancus arvernensis che era divisa in due parti, spezzata lungo a sinfisi mentoniera della mandibola stessa.

Al tempo, già consapevole dell'importanza del ritrovamento in quanto un vertebrato, dissi ai presenti che ero un appassionato di paleontologia, spiegai di cosa si trattava, che probabilmente risaliva al Pliocene superiore, e quindi consigliai vivamente al personale del Municipio di riporla in luogo sicuro e di avvisare le autorità della scoperta.

Mi riproposi di ritornare più avanti per fotografare il fossile, infatti qualche tempo dopo mi ripresentai dotato di fotocamera, ma nessuno ricordava che fine avesse fatto la mandibola: gli impiegati del Municipio non erano al corrente del fatto e non fui preso sul serio. Tornai a Torino molto deluso.

Di quel prezioso fossile se ne persero le tracce: demoralizzato pensai che fosse "scomparso" in qualche collezione privata. Appuntai però questo episodio nel mio diario di appassionato naturalista che tengo a partire dall'inizio degli anni Settanta dello scorso secolo, quando iniziai ad appassionami alla Paleontologia.

Riscoperta della mandibola del mastodonte

Passano 48 anni. Esattamente venerdì 13 maggio 2022, navigando su Internet alla ricerca di notizie su fossili di proboscidati del Pliocene del Piemonte, mi imbattei nel sito gestito dall'Ente di Gestione del Parco Paleontologico Astigiano in cui compariva un articolo della giornalista Laura Nosenzo dal titolo I mastodonti di San Paolo Solbrito. Con grande stupore lessi che parlava della scoperta di una mandibola di mastodonte che mi ricordava quella famosa del 1974 "scomparsa", infatti riportava in sintesi quanto segue:

"[...] tutto è nato dal ritrovamento, 13 anni fa [dicembre 2008] nel sottotetto del Municipio, di una parte della mandibola (spezzata in due parti forse a causa degli spostamenti) con due molari [...] L'allora sindaco Carlo Alberto Goria guadagnò il sottotetto del Municipio per recuperare le luminarie da allestire in paese e s’imbatté “in due ‘affari’ - mi racconta - sistemati per terra che attrassero la mia attenzione e mi indussero a portarli fuori, osservarli, spolverarli e farli conoscere al paese”. Il primo cittadino, appassionato di storia e paleontologia, aveva capito che quei due strani pezzi, ingombri di nessun valore per chi li aveva esiliati in solaio, erano nientemeno che due grandi molari di mastodonte.

[...] il sindaco Carlo Alberto Goria comunicò il ritrovamento alla Soprintendenza Archeologica del Piemonte e interpellò ex amministratori e concittadini per capire come i denti fossero finiti in soffitta. Qualcosa a poco a poco venne fuori, anche se non fu mai chiaro chi li avesse consegnati, e perché, in Comune [...] i molari furono ritrovati, verosimilmente intorno agli anni settanta del Novecento, in una cava di sabbia in Regione Monsotto; mancando un posto adeguato per accoglierli, Goria decise di renderli visibili a quanti si recavano in Municipio e, per garantire loro un’adeguata protezione, li sistemò nell’ufficio del sindaco".

Nel 2016 fu nominato nuovo sindaco, il Dott. Luca Panetta, che nel 2019 trasferì la mandibola dal suo ufficio alla sala del Consiglio Comunale dove ora è religiosamente custodita in una teca di vetro. Quanto riportato e la data calzavano a pennello con la mandibola che avevo visto quel sabato 24 agosto del lontano 1974. Inoltre la frase: mandibola (spezzata in due parti forse a causa degli spostamenti) fugò ogni dubbio: la mandibola era proprio quella!

La foto che era presente nel sito (che sotto riporto) poi mi permise di identificarla senza ombra di dubbio.





Foto della mandibola ritrovata di Anancus arvernensis dal sindaco Dott. Luca Panetta, divisa in due parti, spezzata lungo la sinfisi mentoniera, nella foto in basso si notano i tipici grandi molari del mastodonte.

La mandibola ritrovata

Grazie alle gentili indicazioni del personale del Municipio di San Paolo Solbrito riuscii a entrare in contatto con l'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria, ed a programmare un incontro in modo da poter fotografare la famosa mandibola. Ben 48 anni dopo il fatto, esattamente il 7 luglio 2022, finalmente conobbi il Dott. Goria, persona di gran cultura, scoprendo anche di avere interessi ed alcune amicizie in comune. Insieme riuscimmo quindi a ricostruire l'esatta storia del reperto fossile, il cui ritrovamento avvenne quasi sicuramente venerdì 23 agosto del 1974, mentre il sito in cui fu estratta era una piccola cava, ormai scomparsa, situata appena a sud della località detta Monsotto presso San Paolo Solbrito.

Si chiude qui la bella storia "paleontologica" della mandibola di mastodonte scomparsa e poi ritrovata.


La mandibola conservata nella teca

Nel 2019 il nuovo sindaco, il Dott. Luca Panetta, trasferì la mandibola dal suo ufficio alla sala del Consiglio Comunale dove ora è religiosamente custodita in una teca di vetro (in alto) in compagnia di un modellino che riproduce il mastodonte eseguito dal vicesindaco Riccardo Azoaglio che si è appassionato, nel tempo, al mastodonte ed ai suoi resti.

Nel particolare della mandibola del mastodonte (in basso),si nota che è spezzata in due parti di cui una si è in seguito ulteriormente frammentata. A fianco compaiono anche due fossili di bivalvi marini ritrovati in situ. La targhetta a destra ricorda la donazione della teca di vetro da parte dell'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria.




Tentativo di restauro

Nella foto in alto l'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria, presenta una parte della mandibola da lui riscoperta in connessione anatomica. Attualmente si è preferito non eseguire ancora un restauro (come anche da me consigliato) prima di un preventivo consolidamento totale del reperto da parte di esperti. Nell'immagine in basso ho riportato una realistica ricostruzione del mastodonte (Anancus arvernensis) scaricata da Internet dove si notano le zanne diritte (il termine anancus indica infatti l'aspetto delle zanne e significa appunto "senza curva").






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