di Marco Romano
Lo sciacallaggio
mediatico che segue immancabilmente disastri naturali come terremoti, tsunami o
eruzioni non è di certo cosa nuova o legata a eventi calamitosi degli ultimi
decenni: diversamente sembra affondare profonde e solide radici nel nostro
inconscio, nella nostra società e comunità. L’attaccamento a disastri e tragedie,
alle storie umane che vi sono dietro, le necessità morbosa di vedere in diretta
il dolore altrui e la distruzione più totale, sono sentimenti atavici e
inestirpabili del genere umano. Sentimenti in parte giustificabili, forse dai
toni esorcizzanti, ma comunque da sempre cavalcati sapientemente da chi ha
saputo intercettare al meglio queste debolezze, per trarne profitti prettamente
personali. Lo aveva capito benissimo, più di due secoli orsono, l’autore
dell’operetta di sole 20 pagine pubblicata nel 1779 dal titolo accattivante: “Spaventosissima descrizione dello spaventoso
spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera degli otto
d’Agosto 1779 ma (per grazia di Dio) durò poco” (Figura 1). L’operetta è
firmata don Onofrio Galeota, auto-definitosi nel testo “Poeta e Filosofo all’impronto”.
Figura 1. Frontespizio dell’opera firmata “don Onofrio Galeota” nelle ristampa del 1825 (Opuscoli burleschi del Giani, in Napoli, presso il Seguin). |
Don Onofrio Galeota
(1732-1802) nacque a Napoli nel 1732 e divenne presto un personaggio noto e in
voga della città partenopea per la scrittura di noti ‘Opuscoli’ del tutto
scellerati e diremo oggi ‘politically incorrect’; brevi testi, nella maggior
parte sgrammaticati, dove il nostro ‘poeta’ si lanciava in focose invettive
contro i più disparati soggetti umani o classi sociali. Tra i più conosciuti
figura l’Opuscolo contro i ‘Pescivendoli’ della città, apostrofati da don
Onofrio come “ladri, porci, scostumati…
…che svergognano la città di Napoli”.
In altri opuscoli l’autore se la prende con i “castagnari”, i “pizzicaroli”
e i ladri napoletani professionisti, che, appiccando il fuoco al Largo del
Mercato, poterono rubare con calma e in santa pace, mentre le forze dell’ordine
e la povera gente erano occupate altrove.
Nonostante il carattere
scadente e poco significativo delle sue operette, per un periodo diversi autori
napoletani scrissero dei pezzi imitando in tutto e per tutto lo stile del
Galeota. Don Onofrio ebbe persino la sfacciataggine di presentarsi in pompa
magna presso l’Accademia Reale, con la pretesa di essere ammesso tra le loro
fila. Memorabile fu la risposta, in genuino stile partenopeo, ricevuta in tale
occasione dal Galeota: “Non te pigli
scuorno, vieni persino qua a dire che voi essere accademico, noi non ammettiamo
ciucci all'accademia”.
Questa la descrizione che
ci da il Benedetto Croce (1912) del nostro poeta, nei suoi “Aneddoti e profili
settecenteschi”: “Don Onofrio parla e
parla molto; il suo tema favorito sono i <<mali costumi>> di Napoli, e le <<sconnessioni>> che ogni giorno si dicono e si
stampano: tutte cose che muovono a indignazione il suo petto di filosofo e di
letterato. E da letterato fulmina contro di esse in versi all’improvviso; e da
filosofo moralizza nella sua prosa sincera, sebbene infiorata di spropositi
d’ogni sorta”. Croce continua affermando come le sue
“orribili prose” siano state impresse
su carta straccia, dove sul frontespizio campeggia, impavido e senza vergogna
alcuna, il suo ritratto: “Vendere i suoi
libercoli, ottenere qualche pranzo, scroccare qualche mancia, questi sono i
suoi fini; e non c’è umiliazione alla quale non si esponga per raggiungerli”
(Croce, 1912, p. 254).
Torniamo ora all’operetta
riguardante la ‘spaventosissima’ eruzione del Vesuvio. Il testo ci trasporta
con la fantasia nella fiera di mercato di una calda notte partenopea
nell’agosto 1779, precisamente sotto la Baracca della Sorbetteria; un pergolato
in legno di forma semicircolare costruito per l’occasione, coperto di tela e
con asse lungo parallelo al Palazzo Reale. Al centro della struttura campeggiano
due sfarzose fontane adornate da obelischi; il pergolato è ulteriormente
suddiviso in numerose ‘baracche’, dove si espongono i prodotti migliori
dell’industria nazionale: dal caffè, alla sorbetteria, piccoli teatri e immancabili
osterie. Giovani o meno giovani donne aristocratiche, incipriate e cosparse di
accattivanti nei rigorosamente finti, si aggirano ammiccando nei loro corsetti
e busti stretti all’inverosimile, in perfetto stile rococò; al seguito un
molesto ronzio di aitanti e giovani virgulti dell’alta borghesia partenopea, tra
cilindri, sigari, fazzoletti nel taschino e mustacchi curatissimi. Le più
giovani s’avanzano nel parapiglia facendosi largo con scollature prorompenti,
impreziosite da fantasie di sgargiante garza o mussolina. Tutto sprizza gioia,
voglia di vivere, luccicanza, opulenza, lucentezza; una totale e gioiosa
ostentazione di colore e curve, come per lasciarsi alle spalle la pesante
fuliggine, cupa e tenebrosa, del trapassato barocco.
Come detto correva
l’anno 1779. Il giovane Beethoven cominciava la composizione della sua prima
sinfonia, a Parigi veniva ideato e costruito il primo velocipede, mentre la
Spagna assediava Gibilterra, dopo aver dichiarato guerra alla Gran Bretagna. A
Senigallia, il sei di marzo dello stesso anno, nasceva il celeberrimo Giovanni
Battista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta, ‘er boja de Roma’, noto
e temuto esecutore di numerose sentenze capitali nello Stato Pontificio (Figura
2):
“Tutt'a un tempo ar paziente Mastro Titta
j'appoggiò
un carcio in culo, e Ttata a mmene
un
schiaffone a la guancia de mandritta.
«Pijja»,
me disse, «e aricordete bbene
che
sta fine medema sce sta scritta
pe
mmill'antri che ssò mmejjo de tene»”
(Giuseppe Gioacchino
Belli, sonetto n. 68, Er ricordo, 29
settembre 1830)
Figura 2. Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta, mostra compiaciuto la testa di una donna appena giustiziata nei pressi di Castel Sant'Angelo. |
Nel frattempo, nella
calda sera partenopea dell’otto agosto, il nostro don Onofrio se ne sta beato sotto
il pergolato della Sorbetteria, in compagnia dell’alta borghesia napoletana. Intrattiene
i presenti con la recitazione di madrigali e altre poesie da lui composte, soprattutto
all’impronta, la sua specialità. All’improvviso un urlo tra la folla; la notte
diventa giorno, la campagna partenopea si illumina di fiamme e di lapilli: il
Vesuvio, brontolando e schiarendosi la voce, inizia a eruttare. Tutti i
presenti si catapultano in men che non si dica lungo la balaustra e fuori della
Sorbetteria, per gustarsi dal vivo lo spaventoso spettacolo pirotecnico della
natura, che illuminava la calda notte estiva napoletana. Tutti tranne uno, il
nostro don Onofrio, che se ne resta infastidito al tavolo. Voltandosi intorno
con fare guardingo, infila di soppiatto nel taschino un costoso fazzoletto di
seta caduto a uno sprovveduto gentiluomo, che, come tutti gli altri, si era
precipitato verso l’esterno per vedere l’eruzione. Per il nostro Galeota è
davvero un disastro, l’eruzione è ridicola e di poco conto; tuttavia, quando i
commensali tornano composti ai loro tavolini, il fenomeno vulcanico diviene il fulcro
assoluto di discorsi, focose opinioni e frivoli chiacchiericci, lasciando in un
angolo isolato il povero poeta istrione: “tutti
parlavano d’altro e niuno dava più udienza a me, onde non mi buscai niente
affatto quella sera, e mi sarei morto di fame se non fosse stata quella
Provvidenza di quel fazzoletto, che subito me l’andai ad impegnare, e me ne
comprai due palatelle di pane, e tre mazzi di rafanelli”.
Come reazione al
curioso avvenimento, l’autore afferma di essersi deciso a scrivere un operetta
dove descrivere i momenti salienti della famosa eruzione, che tanto aveva
scaldato gli animi la sera dell’otto agosto del 1779. Il Vesuvio, secondo don
Onofrio, è ben differente rispetto le normali montagne, “perché tutte le altre montagne del mondo non dicono e non fanno mai
niente; solo questa montagna o dice o fa qualche cosa di nuovo” (Figure 3,
4). Riporta poi velocemente le varie teorie interpretative circa i suoi fuochi
sotterranei ed eruzioni: da quelle antiche e mitologiche che vedevano la
montagna come la “bocca dell’inferno”,
a quelle dei più quotati e “moderni” naturalisti, che a lungo ne discorrono nei
loro tediosi trattati accademici. Con il suo classico stile provocatorio e
ironico, paragona alcune teorie sugli effetti dei ‘vomiti’ di lava, dovuti a
zolfi e bitumi sotterranei, all’effetto sul corpo umano di alcuni rimedi medicinali:
come “il sale d’Inghilterra, che ci fa un
grand’effetto, e quasi quasi ci fa andar le budella, e ci fa uscir l’occhi da
fuora, da sopra, e da sotto. E questa mi pare a me la spiegazione più
filosofica”.
Figura 3. “Feuerspeiender Vesuv bei Mondschein” (Il Monte Vesuvio sputa fuoco al chiaro di luna), di August Kopisch, 1844. Alte Nationalgalerie, Berlin. Foto Isabella Salvador. |
Figura 4. “Das Krater des Vesuvus mit dem Ausbruch von 1828” (Il cratere del Vesuvio con l’eruzione del 1828), di August Kopisch, 1828. Alte Nationalgalerie, Berlin. Foto Isabella Salvador. |
Si fa poi beffe della
scuola di pensiero che voleva interpretare tutti i fenomeni della natura con le
nuove scoperte legate all’elettricità, compresi i parossismi del Vesuvio e sue
eruzioni. Scrive a riguardo l’autore: “se
uno paga un debito, non vogliono che sia pagamento, ma dicono che sia la
materia elettrica metallica, che dalla sacca del debitore corre alla sacca del
creditore, e gli esecutorj, che fanno fare questo passaggio, mò sono diventati
scintille elettriche”. Allo stesso modo “se un innamorato bacia la mano dell’innamorata, e quella ci ha gusto
assai, dicono, che è fluido elettrico amoroso, che scorreva per le midolle
dell’innamorato, e che colla botta di quel bacio ha saltato, e passa a scorrere
per le midolle dell’innamorata, e che una si carica, e l’altro si scarica”.
Don Onofrio riferisce
le numerose pressioni tediose di amici e conoscenti a metter finalmente nero su
bianco le osservazioni e le meraviglie di cui furono testimoni la famosa notte
dell’eruzione. Inizia quindi, suo malgrado e controvoglia, a “raccontate le gran meraviglie che s’accompagnarono
con quella spaventosa eruzione”. La prima meraviglia consisteva certamente
nella grande colonna di lava che fuoriusciva dalla bocca e veniva sparata “tanto alta”. Tuttavia, riporta l’autore,
non così alta come riportato negli sproloqui del popolino locale che parlava di
getti spinti fino a 17 miglia; altezza successivamente ritrattata a sole tre
miglia dopo essersi resi conto dell’entità dello sproposito. La seconda
meraviglia era rappresentata dal grande spavento generale della popolazione
napoletana, tra urla, strilli e donne che correvano all’impazzata cercando un
qualche tipo di rifugio: “perché nella
maggior parte delli vicoli di Napoli non si vedeva niente… …e là erano li maggiori strilli, e le femmine
parevano ossesse, e indemoniate, e se li domandavate perché strillavano, non lo
sapevano nemmeno loro”. La meraviglia successiva è rappresentata dal pianto
dirotto di molte persone che fece seguito alla fine della ‘grande’ eruzione;
pianto liberatorio quasi per chiedere perdono al padreterno e al monte, e voler
fare infine penitenza: “ma la verità fu,
che quella sera tutti mangiarono con buonissimo appetito”.
Le meraviglie
successive consistono nella incredibile affluenza di pittori per ritrarre il grande
evento e scrittori, che consumarono pagine e pagine inutili di cronaca per
narrare la faccenda, nonostante l’eruzione sia stata, a detta dell’autore, del
tutto modesta e sottotono. Così come in annate di siccità si fa tanto grano e
poca paglia, e in annate piovose viceversa abbonda la paglia e scarseggia il
grano “così alle volte ci sono eruzioni
grandi, e scrittori pochi, ed altre volte ci sono eruzioni piccole, e scrittori
assai”.
Don Onofrio sottolinea
come molte di queste catastrofi o eventi naturali speciali, che siano comete,
terremoti, eruzioni, equinozi, aurore boreali, solstizi o parti mostruosi, sono
spesso pronostici di qualche evento maggiore che deve accadere nel prossimo
futuro: mutazione di governi e principi, cadute di interi imperi, pestilenze,
fame, guerre o fallimenti dolorosi. Tuttavia, secondo don Onofrio, gli unici
pronostici possibili per la città di Napoli si sono in effetti puntualmente
verificati: 1) il fallimento dell’impresario del teatro del Fondo, dove la sera
dell’eruzione fu la prima volta che non si poté finire l’opera “e fu pessimo augurio per l’impresario”;
2) i guai per il povero Spoletino (Vincenzo detto lo Spoletino, venditore di “chincaglierie”) che per la prima volta
fu costretto a sospendere e annullare la sua lotteria nella baracca presa in
affitto; 3) un galantuomo amico dell’autore, ingarbugliato in questioni
burocratiche e testamentarie, a cui restava come possedimento un solo bel giardino;
podere totalmente devastato dalla pioggia di pietre e cenere, con tanti
ringraziamenti al Vesuvio e al suo spettacolo pirotecnico fuori programma.
È chiaro come l’autore
nel testo si faccia gioco non solo di tutti gli scrittori, artisti o poeti che
avevano dato tanta importanza all’evento vulcanico, ma anche tutti i creduloni
e superstiziosi del popolino; una marmaglia credulona che vedeva nella ‘grande’
eruzione chissà quale presagio funesto per il futuro prossimo.
Tuttavia è nelle
conclusioni che apprezziamo il vero colpo di genio in campo di marketing da
parte del ‘poeta’ napoletano; conclusioni dove l’autore si propone di
confessare il suo peccato “e colle
lagrime agli occhi cercarne perdono alli miei cari benefattori, e lettori”.
Don Onofrio alla fine vuota il sacco: l’eruzione fu ridicola e di poco conto e
di certo non spaventosissima. Tuttavia, in modo truffaldino, aveva
deliberatamente definito spaventosissima l’eruzione nel titolo della sua
operetta, in modo da attirare l’attenzione dei sempliciotti e creduloni e
vendere così quante più copie possibile del testo stampato. Vale la pena riportare
le parole dell’autore:
“Io ho messo nel titolo dell’opera che questa eruzione fu
spaventossisima, e non è vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna
le genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello che
poteva venire. A Napoli poi nessuno ebbe spavento, né del passato, né del
presente, né del futuro: e veramente la cosa non lo meritava. Ma io l’ho fatto
per dar concetto al mio libro, movere la curiosità, e così venderne più… …per la verità l’eruzione fu poca cosa, e chi
si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è tra una
cannonata, e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a una strico. E così si
è verificato il detto antico:
<<Sono assai più le vuce, che le nuci>>
Vivi
felice.”
Immaginate lo sconcerto
del povero lettore che, una volta giunto tutto di un fiato alla fine dell’operetta
appena acquistata, si accorge di essere stato burlato e imbrogliato da un autorucolo
da quattro soldi, che non ha neanche il pudore di negare l’evidenza; autore che
arriva ad auto-denunciarsi nel finale, facendosi sberleffo dei lettori. Non c’è
che dire, veramente un astuto colpo di marketing di ben 237 anni fa; colpo da
maestro che ha saputo muovere sapientemente le corde giuste per aumentare la
curiosità e quindi le vendite dell’operetta.
Ma c’è un ulteriore
colpo di scena…
Analizzando
attentamente il lessico e la struttura del testo, non si riscontra quasi nulla
dello stile pessimo, volgare, oltremodo dialettale e sciatto di don Onofrio di
cui parlava il Benedetto Croce: “Ma è
curiosa la lingua in cui sono scritti, ch’è proprio quella che si parla in
Napoli da molta parte della piccola borghesia: non il dialetto volgare, ma il
dialetto mescolato di parole italiane dialettizzate o storpiate”. Lo studio
dello stesso Benedetto Croce e l’edizione pubblicata nel 1825 (opuscoli
burleschi del Giani) svelano finalmente l’arcano: il vero autore non è affatto don
Onofrio Galeota.
In realtà l’opera fu
scritta, nel giro di una sola notte (quella dell’eruzione per l’appunto), dal
noto economista italiano Ferdinando Galiani (Figura 5), firmandola come don
Onofrio e cercando di imitarne al meglio lo stile, la grossolanità e scivoloni
linguistici, che avevano reso tanto noto il ‘poeta’ all’impronta napoletano. Così,
utilizzando la sua mente affilata e sopraffina, Galiani aveva dato sfogo alle
sua capacità di scrittura tagliente, scimmiottando lo stile di don Onofrio, ma trasfigurando
il personaggio fino a farlo divenire, a tutti gli effetti, vera arte. Scrive
Croce a riguardo: “Le varie teorie,
ch’erano state proposte in quell’occasione per ispiegare le eruzioni, vi sono
graziosamente messe in caricatura; e con arte finissima vi è riprodotto il modo
di concepire e di parlare di uno sciocco, quale era don Onofrio: è l’idea di
don Onofrio; un don Onofrio rappresentato dall’arte” (Croce, 1912, p. 260).
Figura 5. L’economista italiano Ferdinando Galiani (1728-1787). Da Enciclopedia Britannica.com. |
L’esperimento
stilistico e letterario di Galiani ebbe gran successo, al punto di inventare
una vera e propria maschera del personaggio napoletano, con numerose imitazioni
da parte di diversi autori negli anni a seguire: “L’ingegnosa bizzarria del Galiani si tirò dietro molti imitazioni;
anzi, da allora s’introdusse la moda, che durò per più anni, degli opuscoli
pseudo-galeoteschi, coi quali i letterati napoletani, quando tornava loro
comodo, si adattavano al volto la maschera di don Onofrio” (Croce, 1912).
L’eruzione del Vesuvio
dell’otto di agosto 1779 ebbe in realtà un considerevole effetto psicologico
sulla popolazione e sugli studiosi, che subito accorsero per descrivere
l’evento, constatare i dannai ad abitazioni e terreni, e rilevare l’effetto del
fuoco sulle campagne circostanti. Soprattutto si temeva che l’eruzione rappresentasse
solamente un precursore di un fenomeno vulcanico ben più violento e distruttivo
per tutta la città e la popolazione. Come leggiamo nell’incipit dell’edizione del
1825: “Per dissipare questa spiacevole
impressione, e rallegrare i sui concittadini, scrisse il Galiani in una sola
notte l’opuscolo seguente sotto il nome di D. Onofrio Galeota autore conosciuto
per la sua ridicola semplicità, imitando in esso esattamente il grossolano
stile di lui. L’indomani l’opera vide la luce: si rise, svanirono le triste
idee, ed ebbe fine il timore”.
Galiani, da buon
economista, ci vide lungo per ben due volte. In primo luogo ideò ad hoc un
titolo catastrofico e accattivante; secondo attribuì la paternità dell’operetta
a un personaggio napoletano che, per quanto deriso o discutibile, attirava da
sempre l’attenzione del grande pubblico come le mosche sul miele: don Onofrio
Galeota.
Senza dubbio una
sapiente operazione di marketing per incentivare la curiosità e le vendite (tuttavia
l’opuscolo venne molto probabilmente distribuito tra amici e colleghi, e il
finale ironico e auto-accusatorio era volto a sottolineare il carattere veniale
di don Onofrio, accattone per antonomasia). Un trucco sapiente che dura e
funziona nel tempo, se ancora oggi il bizzarro titolo ha attratto fatalmente la
mia attenzione, e probabilmente anche quella del lettore se ha avuto la
pazienza di seguirmi fin qui nel testo.
Tutto sommato i danni
dell’eruzione furono abbastanza limitati e non risultano vittime. L’onda del
sensazionalismo e della tragedia fu quindi cavalcata, potremmo dire, a ‘fin di
bene’ da Galiani, per tentare di sdrammatizzare l’accaduto e farci sopra una grassa
risata liberatoria.
È triste pensare che, a
più di duecento anni di distanza, le calamità naturali e disastri che
colpiscono il territorio e la popolazione italiana diventino ancora fonte di
sciacallaggio mediatico e guadagno, tra giornalisti improvvisati,
programmi televisivi osceni, interviste imbarazzanti, e incommentabili risatine
al telefono tra palazzinari senza scrupoli.
Questi banditi, signori
miei, non meriterebbero di certo neanche la “Maschera di don Onofrio” di crociana memoria…
Figure 7. Geoitaliani “extended group” con un silente Vesuvio sullo sfondo. 88° Congresso della Società Geologica Italiana, Napoli 7-9 settembre 2016 |
Per
saperne di più
- Croce, B. 1912. Aneddoti e profili settecenteschi,
Sandron.
- Galeota, O. 1825. Spaventosissima descrizione dello
spaventoso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera
degli otto d’Agosto 1779 ma (per grazia di Dio) durò poco. Gio. Battista
Seguin, Napoli (in realtà opuscolo di Ferdinando Galiani, ristampato nella
collezione degli opuscoli burleschi del Giani, in Napoli, presso il Seguin, nel
1825).
- Prilisauer, E.-M. La moda nel Settecento.
http://homepage.univie.ac.at/eva-maria.prilisauer/pdf/settecento.pdf
http://homepage.univie.ac.at/eva-maria.prilisauer/pdf/settecento.pdf
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