di Marco Romano
Tra gli illustri italiani
che nei secoli precedenti hanno scritto di scienze naturali e geologia sensu lato, la penna più divina
appartiene senza dubbio alcuno al Sommo Poeta: Dante.
Durante di
Alighiero degli Alighieri (1265-1321), bardo per eccellenza, padre della lingua
italiana, filosofo, linguista, politico e molto altro. Dante capace di
commuoverci con la delicatezza ed estetica dei versi immortali nella preghiera
alla Vergine, il “Termine fisso d'eterno
consiglio”, colei “che l'umana
natura/ nobilitasti sì, che il suo Fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”.
Dante capace di infiammarci con invettive roboanti, come quella contro Pisa “vituperio de le genti del bel paese là dove
'l sì suona”, e lamentando la lentezza dei nemici a distruggere questa
novella Tebe, esorta a muoversi la “Capraia
e la Gorgona” in modo che “faccian
siepe ad Arno in su la foce,/ sì ch'elli annieghi in te ogne persona!”. Questo
Dante è capace di stupirci ancora una volta, rivelando tra i suoi versi una
profonda conoscenza anche del mondo naturale e di numerosi fenomeni che oggi
definiremmo di carattere geologico.
D’altronde la Divina
Commedia rappresenta a tutti gli effetti un compendio olistico della conoscenza
o “canoscenza” umana (per dirla con
le parole del Poeta) agli inizi del quattordicesimo secolo, spaziando dalla
filosofia, teologia, medicina, scienze naturali, etica, politica, geografia,
lettere, arti in generale e astronomia. Nei versi di Dante si trovano chiari
riferimenti all’organizzazione degli esseri viventi con particolare riferimento
al loro comportamento (etologia), utilizzata come sorgente primaria di metafore
con implicazioni prettamente etiche. Tutti questi elementi di carattere
scientifico e artistico non sono riportati in lunghi e tediosi discorsi
accademici, ma risultano immersi qui e la in versi di rara bellezza e
raffinatezza, spesso solo menzionati velocemente per stimolare la curiosità del
lettore che volesse approfondirne e carpire il loro significato più profondo. Dopo
la stagione dei poeti classici dell’antichità, possiamo affermare senza alcun dubbio
che la profonda impressione esercitata dal mondo della natura nella mente umana
inizia esattamente e definitivamente con l’opera di Dante. Questa
caleidoscopica cornucopia di scienze e arti, che costituisce l’impresa quasi
sovra umana che è l’opera di Dante, ha portato giustamente autori come Carlo Ossola
a definire la Divina Commedia come la più gremita enciclopedia del mondo medievale.
Nel suo lavoro Dante è
totalmente cosciente di integrare la filosofia di Aristotele con la basi
razionali del pensiero cristiano (tentativo già trovato in Alberto Magno e
Tommaso d’Aquino). La lettura attenta dei versi, mette in luce come molte delle
interpretazioni che potremmo chiamare “geologiche” sensu lato sono un eredità diretta e non celata del pensiero
aristotelico, in particolar modo dei Metereologica, disponibili al poeta
fiorentino grazie alle nuove traduzioni e al rinnovato interesse circa il mondo
classico a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo. Risulta quindi logico
trovare in Dante riferimenti a un universo completamente creato da Dio, un
pianeta Terra vecchio di soli 6500 anni, classica combinazione del sistema
Aristotelico-Tolemaico con la verità rivelata della Bibbia. In tale visione
l’orogenesi e i terremoti sono causati da esalazioni di vapori sotterranei e le
terre emerse sono concentrate nell’emisfero nord, mentre quello meridionale
risulta occupato interamente dalle acque di un grande oceano: il famoso “mondo sanza gente”, a cui fa riferimento
Dante nel potente e immortale Canto di Ulisse, l’esploratore per eccellenza, “lo maggior corno della fiamma antica”,
che incarna ancora una volta la necessità quasi fisiologica e impellente dell’uomo
di conoscere oltre i confini stabiliti.
Sebbene molte delle
interpretazione e teorie abbracciate da Dante potrebbero far sorridere alla
luce delle conoscenze attuali, bisogna tener conto dello stadio totalmente
nebuloso in cui vertevano le scienze naturali in generale e gli elementi di
scienze della terra in particolare. I primi ragionamenti di stampo organico e
significativi in campo geologico devono essere fatti risalire al genio di
Leonardo da Vinci circa un secolo dopo la morte di Dante. Il termine stesso
Geologia verrà coniato solamente nel 1603 da Ulisse Aldrovandi e fino alla fine
del diciassettesimo secolo sarà in campo ancora un vigoroso dibattito circa la vera
natura dei fossili, con un cospicuo numero di uomini di cultura che
continuarono a interpretarli come lusus
naturae, resti inorganici plasmati dal vis
plastica e dalla vis formativa.
Per vedere pubblicati ed esposti con chiarezza i principi fondamentali della
geologia come quello di ‘orizzontalità originaria’ bisognerà aspettare
l’epocale Prodromus di Stenone del
1669 (quindi ben 350 anni dopo la morte del poeta fiorentino). Ugualmente non
deve far sorridere l’utilizzo dei sistemi aristotelici-tolemaici se si
considera che sul finire del diciassettesimo secolo la letteratura geologica
inglese era ancora tempestata dalle famose e in voga “teorie sacre” della terra
di John Ray (1627-1705), Thomas Burnet (1635-1715), e William Whinston
(1666-1753), opere dove l’osservazione diretta dei fenomeni era ignorata ‑o
sapientemente evitata‑ per poter riconciliare al meglio le teorie geologiche
con le Sacre Scritture.
Dante è in grado di
utilizzare mirabilmente gli elementi della natura, specialmente del paesaggio,
per costruire il fondamento materiale su cui si basa il viaggio immaginario nel
mondo sotterraneo. Specifiche tipologie di rocce e sedimenti, frane e corpi
franosi, rupi scoscese, sorgenti idrotermali e cascate diventano la materia
prima da plasmare nelle mani del poeta fiorentino, su cui basare similitudini e
metafore nei suoi versi immortali.
Nell’Inferno si trovano
riferimenti a terremoti, idrogeologia, depositi di travertino, struttura delle
montagne, modellamento del paesaggio fino alla struttura del pianeta Terra e
dell’intero cosmo. Tuttavia la grandezza maggiore di Dante risiede nell’abilità
di comunicare, in brevi versi, la netta separazione tra i fenomeni naturali
interpretati scientificamente e il loro utilizzo per fini puramente poetici,
politici, estetici e persino morali.
Nel trattare temi
complessi con “l’equilibrio geofisico” e le ragione per la corrente
disposizione di terre e mari, il poeta fiorentino non sembra accettare
solamente e passivamente la pesante eredità di Aristotele (come affermato
diversamente da diversi esegeti, anche autorevoli), ma mostra una analisi
critica e profonda in campo geologico sensu
lato, preferendo sempre l’osservazione dei dati fenomenici alle teorie
meramente astratte.
Dante considera la Terra
come una sfera perfetta con una circonferenza di 20.000 miglia e raggio di 3250
(un valore ragionevolmente vicino a quello accettato attualmente), con misure
derivate dagli studi di Tolomeo piuttosto che da quelli di Eratostene. Nella
visione dantesca, solo l’emisfero settentrionale risultava occupato da terre
emerse e abitato (non vi era logicamente ancora conoscenza di America,
Australia e Africa centro-meridionale), con l’aera dell’Europa, Asia e Africa
che costituiva la così detta “gran secca”
di profilo semicircolare. L’emisfero meridionale era invece immaginato come
occupato dalle acque del grande oceano, probabilmente eredità diretta di
Aristotele che considerava l’emisfero nord come sede della generatio e corruptio,
mentre l’emisfero sud –dove Dante posiziona la montagna del Purgatorio‑ era
considerata la porzione nobile (la stessa concezione può essere trovata anche
in Alberto Magno). E Dante riesce a comunicare tutto questo con la bellezza dei
suoi versi, quando nel Canto XXVI descrive il folle volo di Ulisse, che lancia
i suoi compagni e la sua conoscenza oltre il limite invalicabile delle Colonne
d’Ercole:
““O frati”, dissi “che per cento milia
perigli
siete giunti all’occidente,
a
questa tanto picciola vigilia
de’
nostri sensi ch’è del rimanente,
non
vogliate negar l’esperienza,
di
retro al sol, del mondo sanza gente.”
Il “mondo sanza gente” è un chiaro riferimento alla concezione di struttura
della Terra che si aveva a quel tempo, abitata solamente nell’emisfero
settentrionale.
Diversi e numerosi sono i
riferimenti geomorfologici nell’Inferno con luoghi e contestualizzazione delle
scene che risultano fondamentali ai fini del racconto poetico. Il poeta riesce
a usare sapientemente vere e proprie metafore geomorfologiche come la famosa “valle” e “selva oscura” del primo Canto:
“Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là
dove terminava quella valle
che
m’avea di paura il cor compunto,”
In questo caso la
dicotomia identificata da Dante è tra “quella
valle” che rappresenta la famosa selva oscura dell’incipit (Figura 2), e il
“colle” anche chiamato “dilettuoso monte”.
Dal punto di vista simbolico, come è ben noto, la selva rappresenta una condizione di aberrazione intellettuale e morale mentre il colle rappresenta la vita ordinata e virtuosa. In tale ottica la scalata e ascensione del colle costituisce a tutti gli effetti una via di recupero e redenzione. Tra le molte simbologie riferite al paesaggio Dante utilizza per esempio una sorgente come metafora della loquacità travolgente del maestro Virgilio, cita gli affluenti del Po (Siede la terra dove nata fui/ sulla marina dove ’l Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui; i “seguaci sui” sarebbero i suoi affluenti); nel canto VII, nel descrivere gli avari e i prodighi costretti a correre da direzioni opposte e urtarsi, parla del fenomeno naturale causato dall’urto delle onde del mar Ionio contro quelle del Tirreno nello stretto di Messina tra Scilla e Cariddi (Come fa l’onda là sovra Cariddi,/ che si frange con quella in cui s’intoppa,/ così convien che qui la gente riddi; fenomeno già descritto nell’Eneide di Virgilio); l’ambientazione desolata nel Canto XIV dei blasfemi, negatori di dio, sodomiti e usurai è presa in prestito dalla sabbia del deserto attraversata dall’esercito di Catone da Utica (Lo spazzo era una rena arida e spessa,/ non d’altra foggia fatta che colei/ che fu da’ piè di Caton già soppressa.). Oltre questi e molti altri riferimenti, Dante in diversi passaggi del testo menziona e usa paesaggi reali della penisola osservati durante il suo esilio o presi in prestito dalla letteratura. Tra i vari riferimenti il Poeta descrive le cascate del Fiume Montone vicino San Benedetto dell’Alpe nell’ Appennino Romagnolo (Canto XVI), la zona alpina tra la Val Camonica e Garda (Canto XX), le zone paludose lungo il corso del fiume Mincio (Canto XX), la pianura del Po (“se mai torni a veder lo dolce piano/ che da Vercelli a Marcabò dichina.”).
Figura 2. Dante nella “selva oscura”, nella famosa
illustrazione di Gustave Doré
(da Longfellow, 1867).
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Dal punto di vista simbolico, come è ben noto, la selva rappresenta una condizione di aberrazione intellettuale e morale mentre il colle rappresenta la vita ordinata e virtuosa. In tale ottica la scalata e ascensione del colle costituisce a tutti gli effetti una via di recupero e redenzione. Tra le molte simbologie riferite al paesaggio Dante utilizza per esempio una sorgente come metafora della loquacità travolgente del maestro Virgilio, cita gli affluenti del Po (Siede la terra dove nata fui/ sulla marina dove ’l Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui; i “seguaci sui” sarebbero i suoi affluenti); nel canto VII, nel descrivere gli avari e i prodighi costretti a correre da direzioni opposte e urtarsi, parla del fenomeno naturale causato dall’urto delle onde del mar Ionio contro quelle del Tirreno nello stretto di Messina tra Scilla e Cariddi (Come fa l’onda là sovra Cariddi,/ che si frange con quella in cui s’intoppa,/ così convien che qui la gente riddi; fenomeno già descritto nell’Eneide di Virgilio); l’ambientazione desolata nel Canto XIV dei blasfemi, negatori di dio, sodomiti e usurai è presa in prestito dalla sabbia del deserto attraversata dall’esercito di Catone da Utica (Lo spazzo era una rena arida e spessa,/ non d’altra foggia fatta che colei/ che fu da’ piè di Caton già soppressa.). Oltre questi e molti altri riferimenti, Dante in diversi passaggi del testo menziona e usa paesaggi reali della penisola osservati durante il suo esilio o presi in prestito dalla letteratura. Tra i vari riferimenti il Poeta descrive le cascate del Fiume Montone vicino San Benedetto dell’Alpe nell’ Appennino Romagnolo (Canto XVI), la zona alpina tra la Val Camonica e Garda (Canto XX), le zone paludose lungo il corso del fiume Mincio (Canto XX), la pianura del Po (“se mai torni a veder lo dolce piano/ che da Vercelli a Marcabò dichina.”).
Nel Canto XXXII il poeta
nel descrivere il fondo dell’Inferno (e centro di tutto l’Universo nella
visione dantesca) occupato dal lago ghiacciaio di Cogito si riferisce al
Danubio e al Don e menziona i cieli di Russia. Canta Dante che il ghiaccio del
lago era talmente spesso e duro che non avrebbe ceduto neanche se un intera
montagna vi fosse caduta dentro:
“Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e
sotto i piedi un lago che per gelo
avea
di vetro e non d’acqua sembiante.
Non
fece al corso suo sí grosso velo
di
verno la Danoia in Osterlicchi,
né
Tanaí là sotto il freddo cielo,
com’era
quivi; che se Tambernicchi
vi
fosse su caduto, o Pietrapana,
non
avría pur dall’orlo fatto cricchi.”
Con il termine
“Tambernicchi”, il Torraca, noto commentatore della Commedia, indicava il Monte
Tambura nelle Alpi Apuane noto nei testi antichi con il nome di
“Stamberlicchi”; “Pietra Pana” (o “Pietra Apuana”) rappresenta differentemente
l’attuale Pania della Croce (Figura 3), che appartiene strutturalmente alla
stessa catena.
Come già accennato
brevemente sopra, i numerosi richiami metereologici sono presi in prestito
primariamente dai Metereologica di Aristotele, senza cambiamenti maggiori nelle
interpretazione dei fenomeni. D’altronde c’è da dire che per quanto riguarda i
processi e fenomeni legati alla condensazione ed evaporazione, le teorie di
Aristotele non si discostano molto dalla corrente interpretazione. Per citare
solo brevi esempi, nel Canto IX Dante descrive, potremmo dire
“scientificamente”, il fenomeno classico di un uragano estivo:
“E già venía su per le torbide onde
un
fracasso d’un suon, pien di spavento,
per
che tremavano amendue le sponde,
non
altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso
per li avversi ardori,
che
fier la selva e senz’alcun rattento
li
rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi
polveroso va superbo,
e
fa fuggir le fiere e li pastori.”
Con l’espressione “impetuoso per li avversi ardori” il Poeta
si riferisce alla generazione e aumento di intensità del vento attratto in zone
di aria calda e rarefatta, con intensità che aumenta proporzionalmente allo
squilibrio termico tra le due condizioni atmosferiche (interpretazione presente
già in Virgilio, Stazio e Lucano).
Un altro riferimento degno
di nota a tal riguardo si trova nel canto XXXIII dove Dante sembra percepire un
forte vento in prossimità di Cogito:
“E avvegna che, sí come d’un callo,
per
la freddura ciascun sentimento
cessato
avesse del mio viso stallo,
già
mi parea sentir alquanto vento:
per
ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non
è qua giú ogne vapore spento?»
Ed
elli a me: «Avaccio sarai dove
di
ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo
la cagion che ’l fiato piove».”
Dante appare
completamente sorpreso di trovare un vento nel centro della Terra, nonché
centro dell’intero universo nel sistema Aristotelico-Tolemaico. In accordo con
la conoscenza del tempo e probabilmente grazie alla lettura di Ristoro
D’Arezzo, Dante sa che nessun vento potrà mai soffiare al centro della Terra,
dal momento che il calore del sole, responsabile a far sollevare i vapori dal
suolo necessari per innescare il movimento dell’aria, non potrà raggiungere
quel punto sotterraneo. Il Poeta ricorre ancora una volta alla finzione
poetica, attribuendo il vento allo sbattere delle colossali ali di Lucifero,
provando ancora una volta la sua abilità di utilizzare sapientemente un dato
scientifico del suo tempo con funzione narrativa nel testo.
Tra i riferimenti più
strettamente geologici, i più numerosi sono quelli riferiti a terremoti e
fenomeni sismici in generale. Ne troviamo traccia nel Canto III dopo l’incontro
con Caronte “dagli occhi di bragia” (Finito questo, la buia campagna/ tremò sí
forte, che dello spavento/ la mente di sudore ancor mi bagna./ La terra
lagrimosa diede vento,/ che balenò una luce vermiglia/ la qual mi vinse ciascun
sentimento;/ e caddi come l’uom che ’l sonno piglia.); nel Canto XXI quando
Virgilio interroga il furbo e mendace demone Malacoda per trovare un passaggio
che gli permettesse di lasciare al quinta Bolgia (Ier, piú oltre cinqu’ore che quest’otta,/ mille dugento con sessanta
sei/ anni compié che qui la via fu rotta; il crollo del ponte si riferisce
al terremoto avvenuto in concomitanza della morte di Cristo secondo le
scritture, e rappresenta una dei pochi indizi temporali per collocare
esattamente il viaggio negli inferi). Ancora nel canto XXXI parlando di Fialte
o Efialte, uno dei giganti che tentò la scalata ribelle contro Giove (trovato
in Virgilio e Orazio), Dante afferma che neanche il terremoto più potente potrà
equiparare i grandi sussulti indotti da i potenti balzi del gigante.
Uno dei riferimenti più
famosi è trovato tuttavia nel Canto XII, dove il Poeta parla dei Lavini di
Marco, un gruppo di frane oloceniche tra Rovereto e Serravalle, giacenti sul
versante occidentale del Monte Zugna torta (Figura 4) e famose per aver portato
alla luce impronte di dinosauro del Giurassico Inferiore.
I due viaggiatori degli inferi stanno scendendo lungo un sentiero impervio e irregolare, quando Dante invoca l’immagine familiare della valle dell’Adige:
I due viaggiatori degli inferi stanno scendendo lungo un sentiero impervio e irregolare, quando Dante invoca l’immagine familiare della valle dell’Adige:
“Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo,
alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal,
ch’ogni vista ne sarebbe schiva.
Qualè
quella ruina che nel fianco
di
qua da Trento l’Adige percosse,
o
per tremoto o per sostegno manco,
che
da cima del monte, onde si mosse,
al
piano è sí la roccia discoscesa,
ch’alcuna
via darebbe a chi su fosse;
cotal
di quel burrato era la scesa;”
Il termine “alpestro” in Dante indica ‘montagna’ in
senso generale, senza riferirsi necessariamente al sistema alpino. Diversamente
in altri passaggi utilizza tale termine per indicare gli Appennini, e viceversa
in alcuni versi si trova la parola Appennini riferiti in realtà alle Alpi.
Nell’interpretazione della gigantesca frana, Dante cita due possibili
spiegazioni scientifiche, un fenomeno sismico –“per tremoto”‑ o una erosione a opera delle acque che, scalzando
alla base il pendio, ne ha causato il crollo–“per sostegno manco”‑ probabilmente utilizzando come fonte per
quest’ultima interpretazione il lavoro di Alberto Magno. È importante sottolineare
ancora una volta come, mentre nel contesto della finzione poetica del mondo
sotterraneo la ruina è attribuita a un fenomeno soprannaturale (terremoto
causato dalla morte di Cristo), parlando del mondo reale (l’area di Rovereto)
il Poeta utilizza interpretazioni fornite dalle scienze naturali dell’epoca,
rimarcando ancora implicitamente la differenza tra immaginazione poetica e
realtà fenomenologica.
Nel canto XIV Dante e
Virgilio passano attraverso un deserto sabbioso (“rena arida e spessa”) camminando lungo gli argini di un fiume
ribollente che si diparte dal Flegetonte:
“Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor
della selva un picciol fiumicello,
lo
cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale
del Bulicame esce ruscello
che
parton poi tra lor le pettatrici,
tal
per la rena giú sen giva quello.
Lo
fondo suo ed ambo le pendici
fatt’era
’n pietra, e’ margini da lato;
per
ch’io m’accorsi che ’passo era lici.”
Anche in questo caso il
poeta utilizza un assetto geologico reale per spiegare al lettore le
caratteristiche del ruscello degli inferi, fornendo un immagine chiara e
immediata di quello che i due pellegrini si trovano di fronte. Dante menziona a
riguardo le sorgenti di acqua solfurea situate vicino a Viterbo e conosciute
con il nome di Bullicame (Figura 5).
Oltre al ribollire classico della acque, tipico di contesti solfurei, il poeta fornisce un'altra interessante evidenza. Descrivendo il fiume infernale, Dante afferma che, come per il Bullicame, il fondo e i margini erano costituiti in pietra (“Fatt’era ’n pietra, e’ margini da lato”), quindi risultando cementati e duri se comparati ai sedimenti sabbiosi sciolti appena attraversati dai due pellegrini. In relazione a tali elementi, il famoso dantista Nicolino Sapegno considerava assurda l’interpretazione che i margini divenissero duri a seguito di incrostazioni depositate dal “ribollimento vermiglio”, ritenendo tale ipotesi non valida sul piano scientifico. Tuttavia questa sembra essere proprio la spiegazione corretta, dal momento che i margini litificati del Bullicame sono formati esattamente dalle incrostazioni di travertino idrotermale, con deposizione di carbonato catalizzato dall’azione di attività microbiale. Un riferimento così antico e importante alla formazione del travertino, da ricevere il plauso persino da uno dei padri della geologia dei carbonati, Robert L. Folk, che, riferendosi al passo dell’Inferno, lo definisce come “sicuramente uno dei primi esempi descritti di diagenesi dei carbonati”. Dante ci sorprende quindi ancora una volta, essendo più vicino egli con la sua poesia all’interpretazione reale del fenomeno che non i suoi moderni esegeti.
Oltre al ribollire classico della acque, tipico di contesti solfurei, il poeta fornisce un'altra interessante evidenza. Descrivendo il fiume infernale, Dante afferma che, come per il Bullicame, il fondo e i margini erano costituiti in pietra (“Fatt’era ’n pietra, e’ margini da lato”), quindi risultando cementati e duri se comparati ai sedimenti sabbiosi sciolti appena attraversati dai due pellegrini. In relazione a tali elementi, il famoso dantista Nicolino Sapegno considerava assurda l’interpretazione che i margini divenissero duri a seguito di incrostazioni depositate dal “ribollimento vermiglio”, ritenendo tale ipotesi non valida sul piano scientifico. Tuttavia questa sembra essere proprio la spiegazione corretta, dal momento che i margini litificati del Bullicame sono formati esattamente dalle incrostazioni di travertino idrotermale, con deposizione di carbonato catalizzato dall’azione di attività microbiale. Un riferimento così antico e importante alla formazione del travertino, da ricevere il plauso persino da uno dei padri della geologia dei carbonati, Robert L. Folk, che, riferendosi al passo dell’Inferno, lo definisce come “sicuramente uno dei primi esempi descritti di diagenesi dei carbonati”. Dante ci sorprende quindi ancora una volta, essendo più vicino egli con la sua poesia all’interpretazione reale del fenomeno che non i suoi moderni esegeti.
Nei versi, oltre a ulteriori
riferimenti di carattere idrogeologico, vengono citati direttamente diversi
tipi di roccia e di sedimenti. Per fare giusto un esempio, nella storica
invettiva del Canto XV contro Firenze (e in particolar modo contro i
fiorentini) da cui il poeta è stato esiliato e costretto a fuggire, Dante
scrive:
“Ma quello ingrato popolo maligno
che
discese di Fiesole ab antico,
e
tiene ancor del monte e del macigno”
In questo famoso
passaggio, il Poeta menziona il termine “macigno”
per denotare un elemento caratteristico del paesaggio dove vivono gli “ingrati”
fiorentini, seguendo la leggenda secondo cui Firenze fosse stata fondata dai
romani dopo la distruzione di Fiesole che scelse di schierarsi con la fazione
di Catilina. Molto probabilmente Dante si riferisce esattamente al litotipo
affiorante estesamente nel territorio Toscano (ma anche in Liguria, Emilia
Romagna, Umbria e Lazio). “Macigno” è infatti un classico e antico termine
litostratigrafico italiano, utilizzato nella cartografia ufficiale a partire
già dalla prima edizione del Foglio 97 ad opera di Lotti e Zaccagna nel 1903.
In effetti il termine “Macigno” come termine ‘stratigrafico’ è trovato già nel Musaeum Metallicum di Ulisse Aldrovandi del 1648 (pubblicato postumo) ed è
menzionato anche da Giovanni Targioni Tozzetti in un lavoro del 1768.
Probabilmente in Dante troviamo la prima testimonianza scritta di questo
termine con accezione geologica.
Ovviamente non potevano
mancare riferimenti al marmo di Carrara (Aronta
è quei ch’al ventre li s’atterga,/ che ne’ monti di Luni, dove ronca/ lo
Carrarese che di sotto alberga,/ ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca/ per sua
dimora onde a guardar le stelle/ e ’l mar non li era la veduta tronca), con
l’uso del termine interessante “ronca”
che sta a indicare l’attività di deforestazione e aratura delle terre occupate
dalla popolazione di Carrara, quando l’industria del marmo ancora non aveva
raggiunto la sua piena importanza.
L’opera di Dante non è
sfuggita ai nostri illustri predecessori naturalisti o geologi sensu stricto, che spesso hanno
utilizzato i versi della Commedia per esprimere concetti o come introduzione a
effetto nei capitoli delle loro opere. Citazioni dirette dell’Inferno dantesco
si trovano infatti in Antonio Vallisneri (1721), Giovanni Targioni Tozzetti (1768),
Antonio Bellenghi (1824), Tommaso Antonio Catullo (1834), Antonio Stoppani
(1915), Paolo Eugenio Vinassa de Regny. Interi riferimenti a Dante e a il suo
inferno sono trovati anche nei monumentali Principles of Geology di Charles
Lyell, amante e affezionato frequentatore della penisola italiana, nonché figlio
di un famoso dantista inglese (traduttore e commentatore inglese della Vita Nova e del Convivio).
Per concludere, l’analisi
nel dettaglio degli elementi geologi caratterizzanti l’Inferno dantesco, ha
messo in luce ancora una volta come l’opera dell’Alighieri e dei suoi
contemporanei non impersonifica affatto in senso riduzionista il “periodo
oscuro” della scienza, come trovato in molte classiche interpretazione sullo
stato delle conoscenze durante il Medio Evo. Diversamente tale periodo
rappresentò lo stadio culturale durante il quale vennero poste quella serie di
domande fondamentali che servirono, in seguito, come vero e proprio propellente
per la successiva e meglio nota “rivoluzione scientifica” (consultare le opere
interessanti a riguardo dell’autore Edward Grant riportate sotto nei
riferimenti).
Quintino Sella (1827-1884),
geologo, alpinista e politico del Regno di Italia, trovandosi di fronte lo
spettacolo geologico di un paesaggio alpino, torna con il pensiero all’opera
monumentale di Dante e afferma entusiasta:
“Ma egli è inutile che io tenti di adimbrarti spettacoli di tal fatta.
Una sola penna avrebbe potuto dipingerli: quella di Dante! Gran peccato che il
Poeta fiorentino, invece delle microscopiche accidentalità degli Appennini, non
abbia conosciuto i colossali e sublimi orrori delle Alpi! Che immagini e che
pennellate ne avrebbe tratto quel finissimo osservatore della natura, il quale
così profondamente ne sentiva tutte le più recondite bellezze”.
Come il nostro illustre predecessore
Quintino Sella, di fronte allo spettacolo di un paesaggio geologico
mirabilmente descritto dalla penna di Dante, sussurreremo i versi immortali del
Sommo Poeta tenendo ben a mente le spiegazioni scientifiche dei fenomeni
osservati ma percependo, allo stesso tempo, il potere evocativo indescrivibile
della poesia dantesca. Parafrasando Centofanti, le parole che sgorgheranno
dalle nostre labbra passarono attraverso quelle di Lucrezio, Catullo, Cicerone,
Virgilio, Livio e Tacito, e in Alighieri e Petrarca divennero ministre della
cultura Latina. Un brivido improvviso come un “tremoto” attraverserà le nostre fibre, e ancora una volta saremo
grati di essere italiani.
Per consultare l’intero
lavoro:
Romano M. 2016. “Per
tremoto o per sostegno manco”: The Geology of Dante Alighieri’s Inferno. Italian Journal of Geosciences, 135(1), 95 108. doi:
10.3301/IJG.2015.21. http://www.italianjournalofgeosciences.it/244/fulltext.html?ida=480
Per saperne di più:
Aristotele 2000.
Meteorologica. Lampi di Stampa. 192 pp
Bellenghi A. 1824.
Ricerche sulla geologia. Rovereto, dall’I.R. Stamperia Marchesani. 124 pp.
De Marzo A.G. 1864. Commento su la Divina Commedia di
Dante Alighieri. Firenze, Grazzini Giannini e C., 1120 pp.
Grant E. 2001. When
did Modern Science Begin? Am. Scholar, 66, 105-113.
Grant E. 2004. Scientific
Imagination in the Middle Ages. Perspec. Sci., 12, 394-423.
Grant E. 2008. The
Fate of Ancient Greek Natural Philosophy in the Middle Ages: Islam and Western
Christianity. Rev. Metaphys., 61, 503-526.
Grant E. 2011. How
theology, imagination, and the spirit of inquiry shaped natural philosophy in
the late Middle Ages. Hist. Sci., 49, 89-108.
Inglese G. 2002. Dante: guida alla Divina Commedia.
Roma, Carocci. 142 pp.
Longfwllow H. W. 1867. L’Inferno di Dante Alighieri.
Boston, De Vries Ibarra e Compagnia.
Ossola C. 2012. Introduzione alla Divina Commedia.
Venezia, Marsilio. 157 pp.
Romano M. 2013. “The vain speculation disillusioned by the
sense”: the Italian painter Agostino Scilla (1629-1700) called “The Discoloured”, and the correct interpretation of fossils as
“lithified organisms” that once lived in the sea. Historical Biology, 26,
631-651.
Romano M. 2015.
From petrified snakes, through giant “foraminifers”, to extinct cephalopods:
the early history of ammonite studies in the Italian peninsula. Historical
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