giovedì 25 giugno 2015

Enrico Coleman e i Monti Simbruini

di Marco Pantaloni


Correva l’anno 1881 ed Enrico Coleman, pittore romano caposcuola del naturalismo, trentacinquenne, effettua insieme a Martinori, segretario della Sezione romana del Club Alpino, una lunga escursione sui Monti Simbruini.

Parte da Roma col tramway per Tivoli, effettuando un “solito nojoso viaggio per la mancanza dei compagni”, e da lì fino a Subiaco in diligenza. Restano fermi il pomeriggio e la sera, a causa di un forte temporale, passando la serata fumando ed importunando le cameriere dell’albergo dove sono alloggiati. Una bruna, snella e simpatica, l’altra ”bionda, bellissima, con certi occhi da far cadere anche un S. Antonio”.

La mattina del 13 aprile, alle 5.30, partono in direzione di Jenne; passano il Monastero di Santa Scolastica, poi scendono sul fondovalle dell’Aniene, incassato “tra le ultime pendici di Monte Livata e il boscoso Monte Carpineto”.
Salendo nel fondovalle inizia “una lunghissima e dotta(?) discussione con Martinori sull’inclinazione degli strati calcarii della montagna”, fino all’arrivo alla Grotta dell’Inferniglio.



Affamati arrivano a Cominacchio, storpiatura di Comunacque, la località dove i fiumi Aniene, proveniente da Filettino, e Simbrivio, proveniente da Vallepietra, si incontrano.
Proseguono passando la cascata di Trevi e risalendo il corso del Simbrivio, verso Vallepietra. I due vengono accompagnati dal guardiano di Vallepietra che con i suoi “forte, giovenotti” li spinge a proseguire il percorso, arrivando a intravedere il Santuario della Trinità e il Monte Autore.



Passano la notte in casa dell’arciprete, Don Mercuri, lasciandogli in dono alcuni strumenti meteorologici portati da Roma. Si addormentano al suono dei cinque torrenti che formano il Simbrivio, con un suono che “rassomigliava al lontano fragore del mare”.



Il 14 aprile lasciano Vallepietra per salire sul Monte Autore e proseguire per Camerata. Li accompagna un cugino dell’Arciprete, incuriosito dalle discussioni della sera precedente sulle “varie formazioni geologiche”. Il loro accompagnatore sollecita alla discussione con un “Ripijamo il discorso de sera”; i due, allora, dialogano con “quel pochino che ne sappiamo a discutere di strati e vallate di erosione ecc.”.
Ammirano poi “un banco di travertino nel quale le foglie di faggio sono ammassate come sotto un torchio” e che “sono tanto perfette che sembrano soltanto tinte del colore del travertino”.
Giungono al Santuario, “colla sua rupe che ci mostra in modo veramente imponente, una roccia di calcare grigio, ranciata qua e là dall’ossido di ferro che cade a picco come una casa per 250 metri sul pendio ripidissimo della montagna, .... e i grandi alberi dei vicini monti paiono semplici cespugli”.
Il Santuario è, ancora oggi, un luogo di grande devozione e Coleman, preoccupato, dice “giunti sotto la roccia perpendicolare, era realmente spaventoso guardare su, vedere dei massi di più metri cubi contornati da profonde screpolature, e apparentemente sul punto di precipitare in basso”.
Si rifanno della scarsa cena quaresimale del giorno precedente mangiando un quarto di capretto, poi salgono verso il Monte Autore, accompagnati dal brutto tempo. Dalla cima osservano il meraviglioso paesaggio dell’Appennino centrale: il Terminillo, il Gran Sasso, il Velino e la pianura del Fucino. Più vicini il Tarino  il Viglio, la valle dell’Aniene, l’altopiano di Arcinazzo, il Monte Semprevisa e il Mare Tirreno. A ponente il monte Scalambra, il Guadagnolo, il monte Gennaro e la Campagna romana. Costruiscono, abitudine presente già allora, un uomo di pietra; Coleman abbandona l’opera dopo un maldestro pestone al dito e dopo aver, eufemisticamente, “sparato qualche colpo di revolver”.
Scendono quindi in direzione di Camerata e dopo un’ora arrivano alla piana di Camposecco.



La piana “è una valle senza sbocco apparente alta 1300 metri circa sul mare, coperta di verde erbetta nascente e tempestata di viola tricolore ed altri fiori che mi rincresce non potere specificare. Qua e là ci sono delle voragini dove pare che l‛acqua si ingolfi. Lo traversiamo per la lunghezza d‛un 3 kilometri, quindi rincominciamo a discendere”.



Proseguono, arrivando a Camerata vecchia nella quale, dopo l’incendio di venti anni prima, “non vi rimangono che pochi abitanti e delle stalle pel bestiame”. Frattanto rincominciò a piovere, e "riparatici sotto un‛arco della chiesa diroccata, la scena era veramente lugubre. Le nuvole salendo e scendendo danzavano una ridda infernale, oscurandoci il panorama e tutto intorno rumoreggiava il tuono, in un angolo dell'arco, in una buca varii crani e stinchi di antichi Cameratani, aggiungevano allegria alla scena”.
Arrivati a Camerata nuova, trovarono alloggio in un’osteria e affacciandosi all'uscio, rimasero “a bocca aperta allo strano e meraviglioso spettacolo di qui Camerata Vecchia, il paese in cui mezz'ora prima eravamo discesi. La sua forma si potrebbe quasi paragonare ad un fiasco cui si sarà spezzato irregolarmente il collo; quando poi più tardi ci vedemmo sorgere dietro la luna, la scena era proprio degna della matita di Dorè”.
La mattina dopo, alle 3, si alzano per partire in direzione di Rocca di Botte; dopo la pioggia notturna la strada è un pantano, e la luna “dà appena abbastanza luce per scambiare i sassi bianchi dai buchi d‛acqua, e viceversa, di tanto in tanto la strada si confonde con un fosso (deve essere il principio di fosso Fiojo, una delle sorgenti del Turano). Notiamo che v‛è già gente nei campi, e sentiamo zappare”.
Oltrepassato lo spartiacque tra Aniene e Turano, giungono finalmente a Arsoli, giusto in tempo per la coincidenza con la diligenza. Che però è costretta ad una sosta di 5 ore a Vicovaro, a causa di una frana che interrompeva la strada. Sostano il pomeriggio a Tivoli, dove Martinori riprende nell’attività di importunare le cameriere; viene bloccato con grida di “statte fermo” e “mo te do na zampata ‘n petto”. Lasciano Tivoli col treno delle 5.50, pronti a “rompere le scatole agli amici”.

Oggi, dopo molti anni, l’itinerario percorso da Coleman e da Martinori è diventato uno dei sentieri più belli e suggestivi del Parco Naturale dei Monti Simbruini; ottimamente attrezzato, ben mantenuto, percorre il cuore del Parco, attraversando i paesaggi più caratteristici di questo settore dell’Appennino centrale.
Ripercorrere questo sentiero, indicato da tabelle con la sigla SC dedicate alla memoria dello “spiritoso” pittore  Coleman, magari dopo aver letto integralmente il suo diario, apre a nuove prospettive di rispetto e tutela della natura e dell’ambiente e, magari, permette di compiere interessanti osservazioni geologiche e geomorfologiche a pochi chilometri da Roma.

Per saperne di più:
http://www.cameratavecchia.it/diario-originale-di-enrico-coleman-1881-escursione-sui-monti-simbruini


venerdì 19 giugno 2015

Sic transit gloria fungi glacialis!

I funghi di ghiaccio descritti da Federico Sacco:
un incontro tra geologia, poesia e ironia

di Fabiana Console
“Percorrendo i nostri ghiacciai alpini talora incontriamo certi curiosi blocchi rocciosi un po’ più elevati […] con una specie di gambo di ghiaccio che li sostiene e solleva […] ; sono uno dei più paurosi spettacoli che offrono le regioni alpine specialmente nelle loro parti più dirupate”.
Così ci descrive nel 1928 Federico Sacco, con la sua ben nota capacità espositiva-divulgativa, i funghi di ghiaccio.
Altro non sono, continua, che
“il prodotto del continuo sgretolamento della montagna compiuto dal gelo e dal disgelo che origina una infinita produzione di materiale”
che disgregandosi dà vita a minuscoli frammenti oppure  a giganteschi massi. Tale materiale, può scendere invece a valle per gravità o perché
“trascinato dalle acque superficiali” e diventa piano piano “ciottolo, ghiaia, sabbia ed infine fanghiglia”.

Ma quando ciò avviene in alta montagna il materiale “di sfacelo” caduto sul ghiacciaio protegge “abbastanza bene” la sottostante massa glaciale contro l’ablazione prodotta sia dai raggi solari che dalla ablazione pluviale. Durante il periodo estivo, quindi, le zone glaciali si “conservano meglio” rispetto a quelle vicine “mancanti di “tale ammanto protettivo”.



Sacco ci restituisce una descrizione quasi antropomorfa del masso ghiacciato che si stacca dalla sua parete originaria in alta montagna “sia che scorra strisciando dal pendio nevoso o glaciale” sia che precipiti giù rotolando con moto accelerato finisce quasi sempre per cadere sul ghiacciaio “dove si adagia sperando di riposare”.
Ma qui si sbaglia!
Perché inizia il suo lungo viaggio “lento e comodo” sul dorso della fiumana glaciale su cui sembra quasi “galleggiare”.
Perfetto il parallelismo geologico-poetico che Sacco ci offre parafrasando le parole della famosa strofa del Natale di Alessandro Manzoni:

Qual masso che dal vertice
Di lunga erta montana,
Abbandonato all'impeto
Di rumorosa frana,
Per lo scheggiato calle
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;
Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
Né, per mutar di secoli,
Fia che riveda il sole
Della sua cima antica

Solo che invece che giacere immobile là dove cadde questo pezzo di roccia con la sua superficie glaciale subisce durante le ore del giorno – sia in inverno che in estate- una “fusione” da parte dei raggi solari più o meno rapida in base alla temperatura raggiunta.
Il ghiaccio che sottostà alla placca rocciosa rimanendo protetto dai raggi del sole, soprattutto in estate, emerge dal circostante piano glaciale e si fa sostenere da un gambo ghiacciato che la fa assomigliare a un fungo.
Se il blocco è largo e lastroide l’effetto a fungo sarà ancora più visibile ; l’inclinazione della placca sovrastante il gambo invece verso sud è dovuto all’azione del sole dal lato di mezzogiorno. Il sole fonde la placca che si inclina “così che tutta la fungaia assume la figura di una compagnia di buontemponi un po’ alticci col cappello sulle ventiquattro”.


E tale forma pendente aiuta spesso gli alpinisti, di dantesca memoria, sui monti di notte o in condizioni atmosferiche avverse che la retta via era smarrita. Il Fungo si rivela così agli occhi dell’alpinista stanco e smarrito come uno sherpa esperto che è gratuito, “non beve e non parla”.
Ma come è noto “come tutto in questo mondo” ha un ciclo vitale e la loro inclinazione esasperata verso sud dalle alte temperature segna, inesorabilmente, la loro fine perché il gambo si inclina e la placca scivola via ricominciando il suo cammino verso la valle.
Così a poco a poco “come nelle vicende umane” tra alti e bassi così il nostro masso è giunto o all'estremo bordo laterale delle fiumane glaciali e scaricato come blocco isolato costituisce un Masso erratico oppure semplicemente come tanti altri forma un elemento di morena.
Così termina la gloriosa carriera un Fungo di ghiaccio che per anni è servito non solo come orientamento a geologi ed alpinisti ma anche a “proteggere loro contro il sole, la pioggia e le nevicate”.



Ma giunto a valle, il masso, raggiunge pace perpetua? Certo che no perché viene disturbata dal
“cavatore di materiale che per costruzione o dalla spaccapietre per pietrisco stradale” ma soprattutto da “qualche noioso geologo che vuol sapere donde vengono, perché, quando e come seccando, uomini e sassi come fa appunto …… Federico Sacco”.

Bibliografia
Sacco Federico, I funghi di ghiaccio. Estratto dalla Rassegna Mensile Unione Ligure Escursionisti. N° 4. Aprile 1928, Genova, 1928

lunedì 8 giugno 2015

Paese che vai piramidi che trovi




di Giovanna Baiguera


Piramidi di Renon/Ritten (BZ)

Ebbene sì, anche in Italia esistono le piramidi.
Sono definite piramidi di terra e ci ha pensato la natura, non l'uomo, a costruirle.
Ma quanto a testimonianza storica nemmeno queste scherzano, considerato che sono in grado di raccontare quel che è avvenuto negli ultimi 10.000, 100.000, 1.000.000 e anche più anni.
Tutto ha inizio da un evento geologico che crea le condizioni essenziali per la loro formazione e poi ci pensa il tempo, che scorrendo provvede a forgiare queste opere in continua intima trasformazione.
Talora in forma solitaria, più spesso in gruppo, a volte persino abbracciate, si presentano all'immaginario collettivo circondate da un alone misterioso, se non addirittura magico-leggendario.
Ai geoscienziati, oggi come in passato, il compito di spezzare l'incantesimo, sfruttare il prezioso contributo informativo di queste rocce e riportarle alla normalità, rivelando nuovi scenari di altrettanta suggestione.

Piramidi di Segonzano (TN)
 
Alte come piramidi, certo, ma la loro forma può ricordare anche funghi, fiori, alberi o figure antropomorfe.
Il grosso della costruzione è costituito da un corpo principale di materiale piuttosto erodibile, al di sopra del quale spesso poggia un cappello di roccia resistente, che protegge il tronco dal destino che più rapidamente ha raggiunto le aree circostanti.

Le piramidi sono dunque il risultato di un processo di evoluzione geomorfologica che necessita, come anticipato, di adeguate condizioni di partenza, per la verità tutt'altro che rare.
Basta infatti che elementi rocciosi resistenti, crollati da ripidi versanti o trasportati da alluvioni, frane o ghiacciai, risultino inglobati in o sovrapposti a materiali rocciosi più friabili, di granulometria più fine, argillosa, sabbiosa o conglomeratica. Bisogna poi che questi detriti rimangano esposti alle intemperie.
Tutto qui? Non proprio, ma il più è fatto.
È noto che i processi di erosione operano sempre in maniera selettiva, ovvero con una diversa incidenza sulle differenti parti rocciose di un affioramento. In depositi come quelli descritti, questa disgregazione costante ma disomogenea porta le piramidi ad emergere pian piano e, all'apparenza, ad innalzarsi sempre più in alto, fino a formare pareti aguzze o lunghe colonne anche di diversi metri di altezza. In un ipotetico replay, si vedrebbe che in realtà sono i terreni circostanti ad abbassarsi e le colonne rimanere, pur precariamente, nella posizione originaria.
L'ineluttabile destino porta il gambo ad assottigliarsi, fino al punto in cui, magari con l'aiuto di una scossa sismica, il masso finalmente cade. Il corpo a quel punto non può che subire una “decrescita” relativamente rapida, sempre ad opera del dilavamento superficiale.

Piramidi di Zone (BS)



Ora sembra proprio che sia stato detto tutto. Ma si può saperne di più.

La configurazione geologica ideale, e più frequente in Italia, almeno per quanto riguarda le emergenze più ampie, è rappresentata dalle spesse coltri di depositi morenici quaternari, diffusi nelle aree prealpine. Le dinamiche glaciali/periglaciali sono infatti capaci, nella loro potente azione distruttrice-costruttrice, di scavare, sostenere, trasportare e ricompattare caoticamente ingenti quantità di materiale roccioso, composto dalle taglie più diverse e poi lasciato in preda agli agenti meteorici o fluviali.

Una curiosità sul termine morena (moraine in francese e in inglese). Deriverebbe dal savoiardo morène, a sua volta probabilmente radicato nell'italico “mora”, significante per l'appunto “ammasso di pietre” (fonte: Treccani).
La Savoia, entità territoriale ancora viva nelle comunità locali, corrisponde a una zona delle Alpi Occidentali ceduta dal Regno di Sardegna all'Impero francese nel 1860, insieme alla Contea di Nizza. Fu il Trattato di Torino a sancire l'annessione, frutto degli accordi (Plombières e successivi) tra il primo ministro Cavour e Napoleone III, il quale, come contropartita per le nuove terre, avrebbe fornito il suo appoggio politico alla monarchia sabauda nel processo di unificazione italiana. Oggi queste aree costituiscono i Dipartimenti Savoie e Haute-Savoie nella Regione Rhône-Alpes, confinanti con la Valle d'Aosta e il Piemonte.
L'occasione è propizia per ricordare un documento che vide la luce proprio all'indomani della proclamazione del Regno d'Italia, considerato pietra miliare nella geologia di questi territori e tra i primi esempi di cartografia geologica nazionale: la Carta geologica di Savoja, Piemonte e Liguria, pubblicata infatti in prima edizione nel 1862 e poi nel 1866. Porta il nome di Angelo Sismonda, scienziato piemontese che sviluppò stretti rapporti con le terre d'oltralpe, tra l'altro contribuendo in maniera determinante alla realizzazione del tunnel ferroviario del Fréjus, iniziato nel 1857 e aperto al traffico nel 1871 (a cui seguì, in tracciato parallelo, quello stradale), a tutt'oggi uno dei principali collegamenti transfrontalieri d'Europa. L'accuratezza dei suoi rilievi geologici preliminari dovrebbe essere meglio riconosciuta tra le ragioni della straordinaria velocità con cui i lavori vennero condotti e portati a termine (si dice addirittura nella metà del tempo originariamente previsto), velocità troppo spesso attribuita, dalle cronache ufficiali, alla sola messa a punto di tecniche di perforazione rivoluzionarie o all'adesione della Francia al finanziamento dell'opera in corso.

Carta geologica di Savoja, Piemonte e Liguria in scala 1:500.000 (1866),
del Cav. Angelo Sismonda,
pubblicata per cura del governo di S. M. Vittorio Emanuele II Re d'Italia.
(disponibile al download su opac.isprambiente.it)

Tornando alle morene quale deposito-madre delle piramidi, bisogna considerare che l'Italia ospita pure esemplari di tutt'altra origine. Esistono infatti piramidi che fotografano franamenti di versante o flussi alluvionali di forte intensità in ambiente di conoide o delta, anch'essi capaci di giustapporre o assemblare clasti eterogenei ed eterometrici in maniera relativamente disordinata.




Fungo di Piana Crixia (SV)


La struttura massiva e l'esposizione costituiscono dunque i presupposti ideali per la formazione delle piramidi. Potrebbero però non essere sufficienti.
In effetti, la ricetta perfetta non trascura le componenti climatiche, connotate da un certo equilibrio tra fasi piovose e asciutte e dall'assenza di forti venti persistenti, a garanzia della tenuta dell' “impasto” piramidale e del suo cappello. Occorre poi che la mescolanza di materiali diversi abbia un'idonea proporzione granulometrica, superata la quale, verso i due estremi opposti, il deposito sarebbe troppo permeabile per essere modellato oppure troppo tenero per mantenere il giusto portamento e l'adeguata portanza. Si direbbe che il tronco possa reggersi quanto più somigliante al calcestruzzo (o viceversa?). Persino la composizione dei clasti avrebbe una sua influenza, a favore della formazione di piramidi in caso di presenze magmatiche o metamorfiche, mediamente meno propense, rispetto a quelle sedimentarie, a degradarsi e dissolversi in fango o a produrre cementazioni. Per i massi sospesi conta ovviamente anche la forma: elementi troppo arrotondati risulterebbero più instabili.

Ciciu del Villar, loc. Villar San Costanzo (CN)
 Al termine di un ciclo erosivo (inteso in senso lato), i massi potrebbero costituire gli unici residui del deposito originario complessivamente dilavato, anzi si può dire che sia proprio questo il destino che spetta a tutti gli affioramenti di piramidi ad oggi osservabili nel nostro territorio, almeno fintanto che prevale l'opera di smantellamento. E' tuttavia ancora possibile, con il procedere dell'evoluzione morfologica, che l'erosione prediliga le unità sottostanti i massi caduti, ed ecco che possono ricominciare a formarsi nuove piramidi, o funghi o umanoidi, formati da membra ancor meno “consanguinee”.

Che cosa accadde? Cosa accadrà?
Si può chiedere a un geoesperto. Forse non avrà tutte le risposte ma probabilmente qualcuna in più della sfera di cristallo..
Intanto non resta che continuare ad ammirare e studiare questi edifici geologici, con l'avvertenza di non sostare sotto il cappello. La caduta del masso sommitale è infatti inevitabile e pressoché istantanea, ma soprattutto imprevedibile nel tempo.



 
 Piramidi di Segonzano (TN)