venerdì 28 febbraio 2014

La cartografia geologica storica nella Biblioteca ISPRA – Servizio geologico d’Italia

Carta geologica del Regno di Napoli (1842)
di Pierre Alexandrowitsch De Tchihatcheff,
geologo russo (1812-1890), annessa al
“Coup d’oeil sur la constitution geologique
des provinces meridionales
du Royame de Naples".
di Fabiana Console e Marco Pantaloni


Il patrimonio bibliografico e cartografico della Biblioteca del Servizio Geologico ha origine negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia. Il Regio Decreto n. 4113 del 15 dicembre 1867 prevedeva, infatti, l'istituzione di una biblioteca della cui necessità il R. Comitato Geologico era perfettamente consapevole avendo iniziato sin dai primi mesi “a formare una libreria speciale valutabilissima” arricchita da “una raccolta di carte che continuamente si accresce
Ciò che rende quindi peculiare, prezioso e unico nel suo genere il patrimonio dalla Biblioteca ISPRA sono le oltre 50.000 carte geologiche, topografiche e geotematiche conservate e custodite nei suoi archivi cartografici che appartenevano, originariamente, al Servizio geologico d’Italia.
La copertura internazionale si estende a circa 170 Paesi e rappresenta, anche per arco temporale - oltre 150 anni - un tesoro di inestimabile valore storico e culturale. Le carte geologiche, costituite da oltre 21.000 esemplari, rappresentano il segmento principale della raccolta.
Carta geologica della Bulgaria a scala 1:300.000,di Georges N. Zlatarski, in 20 fogli, 1907.
Quasi 15.000 sono le carte geologiche che rappresentano il territorio italiano, di cui circa un migliaio di particolare valore storico e di pregio perché originali cartografici, molti dei quali bozze d’autore ed acquerellate a mano. La cartografia manoscritta geologica di fine ‘800 di personaggi come Igino Cocchi, Bernardino Lotti, Felice Giordano, Domenico Zaccagna, Luigi Baldacci, Vittorio Novarese, Arturo Issel, ecc., con note a margine e correzioni autografe, sono l’emblema di una scienza che, su solide basi culturali, stava nascendo in Italia.
Dalla documentazione cartografica antica emerge con chiarezza il processo grazie al quale la geologia è assurta a rango di disciplina autonoma nel settore delle scienze naturali. Il valore di una carta geologica storica è intrinsecamente legato alle figure del rilevatore e del cartografo. La conoscenza approfondita della materia e le abilità artistiche di un cartografo facevano la differenza.



Non solo carte: la biblioteca conserva anche
litografie, stampe, manoscritti, sezioni geologiche.
In questa figura il Gruppo del M. Bianco,
disegnato dal pittore Alessandro Balduino,
allegato al Bollettino del CAI, n. 40
In epoca contemporanea, lo sviluppo delle tecnologie di rilevamento e di rappresentazione di una carta ha portato a diversificare le competenze moltiplicando i contributi necessari alla sua realizzazione: se oggi, attraverso la produzione di un elaborato cartografico è possibile risalire alla specifica attività e alle competenze dell’intero Ente che lo ha prodotto, è quasi impossibile individuare gli apporti dei singoli specialisti.


Analizzare, studiare, catalogare e digitalizzare la cartografia geologica antica ha fornito l’occasione di studiare le fasi di evoluzione dall’istituzione del Regio Servizio Geologico nel 1873 e i primi passi che portarono alla realizzazione, con non poca fatica, dei 277 fogli della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000. Inoltre, la grande varietà di carte e bozze d’autore hanno offerto lo spunto per scoprire le diverse e interessanti personalità dei geologi di allora e le loro complesse relazioni con le istituzioni governative attraverso le vicende politiche del XIX secolo.

Comprensibili esigenze di conservazione e tutela da un lato, e di diffusione dall’altro, hanno indotto la Biblioteca dell’ISPRA a realizzare, partendo dal 2001, riproduzioni in formato digitale di oltre 1000 carte geologiche antiche.


La procedura tecnologica intrapresa nelle attività di digitalizzazione è piuttosto complessa: dopo la selezione e l’analisi del bene cartografico oggetto del lavoro, lo stesso viene studiato per definirne, laddove necessario, le caratteristiche “editoriali”, cioè il fattore di scala, l’ubicazione geografica, l’anno di realizzazione e l’Autore, spesso non indicati esplicitamente. In tal caso viene avviata una ricerca negli archivi per identificare chi e quando la carta è stata realizzata, analizzando vecchi cataloghi cartografici o verificando riferimenti bibliografici di Autori più moderni. Di ausilio a questa ricerca è spesso l’analisi grafologica di eventuali appunti o note a margine della stessa carta.

La fase successiva prevede la scansione per mezzo di adeguati strumenti tecnici, finalizzati alla realizzazione di immagini raster in formati idonei all’archiviazione elettronica, ad adeguata risoluzione al fine di mantenere al meglio le caratteristiche originali di grafica e di stampa.
Completata la fase di digitalizzazione il file relativo viene caricato sul server dell’Istituto e reso disponibile, sul catalogo OPAC, al download da parte dell’utenza interna ed esterna. Una fase successiva, che è attualmente in corso di sperimentazione, consiste nel georiferire i file raster cartografici e renderli visualizzabili sui diversi strumenti di visualizzazione geografica, quali, ad es., Google Earth.

Il gruppo di lavoro dell'ISPRA (mp, fc), impegnato nella scansione e
catalogazione del materiale cartografico con una delle più preziose
carte della collezione: la "Carta corografica dello Stato Pontificio"
di Giuseppe Ponzi, 1849
Il valore di tale patrimonio cartografico è oggi riconosciuto anche grazie all’interesse per il settore che sempre più si va allargando, al di là di una ristretta cerchia di studiosi e collezionisti, a un pubblico di fruitori a vario titolo interessati. Lo studio dell’evoluzione storica del territorio, sia essa a scopo geologico, urbanistico, ambientale, archeologico, non può prescindere dallo studio della cartografia antica: l’imponente quantità di “disegni”, mappe, carte geologiche, carte topografiche, carte catastali, costituisce una fonte inesauribile di informazioni, notizie e dati utili.


Ma non è solo e necessariamente utilitaristica la motivazione alla base dell’interesse: leggere una “vecchia” carta può significare compiere un viaggio nel tempo e nello spazio, subire il fascino dell’esplorazione del passato attraverso tecniche di rappresentazione non più in uso, segni convenzionali legati ad una qualità della vita “non tecnologica”. La cartografia antica ci indica, inoltre, lo stato delle conoscenze tecniche e scientifiche dei geologi rilevatori e dei cartografi, la loro sensibilità nei confronti del territorio, della sua storia e del suo utilizzo.

mercoledì 19 febbraio 2014

Luoghi della memoria della geologia italiana: la miniera di Su Suergiu a Villasalto (Gerrei)

di Alessio Argentieri
e Marco Pantaloni

Introduzione
Nel suo recente reportage di viaggio sugli scenari della Grande Guerra, pubblicato sul quotidiano La Repubblica nell’agosto 2013, Paolo Rumiz constata con rammarico e disappunto, nella tappa sul Monte Hermada, che “l’Italia se ne fotte della memoria dei luoghi”.

Tale affermazione ha fatto riflettere noi della Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italiana, che tentiamo, nel nostro piccolo, di contribuire all’inversione di questa tendenza. E lo facciamo rinverdendo la memoria, un po’ offuscata, dei luoghi simbolici della storia della geologia italiana (con malcelata preferenza per quelli non di primo piano), a cui dedichiamo sovente spazio nel blog GEOITALIANI.
Un filone quasi inesauribile lo rappresentano i luoghi dell’epopea mineraria nazionale, dove i nostri geoscienziati e tecnici della seconda metà del XIX secolo si resero protagonisti dello sviluppo industriale e della modernizzazione del giovane Stato unitario.

Tra i molti siti estrattivi ormai dismessi, sono certamente quelli della Sardegna ad emanare un particolare, malinconico fascino. Oggi vogliamo ricordare la miniera di Su Suèrgiu - in campidanese “il sughero”- presso Villasalto, nel Gerrei.
Il sito, attivo dalla seconda metà dell’Ottocento, rappresentò a lungo il principale centro in Italia per l’estrazione e lavorazione dell’antimonio, materia prima fondamentale per l’industria bellica nazionale; all’epoca Su Suèrgiu rivaleggiava per il primato con la fonderia di Manciano, nel grossetano. Lo sviluppo socio-economico del territorio circostante fu profondamente condizionato dalle alterne vicende dell’industria mineraria per quasi un secolo, dall’Unità del Regno, proseguendo attraverso le due Guerre Mondiali, fino al definitivo declino con l’abbandono della concessione nel 1987.



La palazzina della Direzione della miniera

Fregio sulla facciata della palazzina

Inquadramento geologico
Il Gerrei si trova nella “Zona delle Falde esterne”, dove affiorano le unità del complesso metamorfico del basamento ercinico. E’ proprio nel settore sud-orientale del massiccio sardo che, grazie agli studi della scuola pisana, negli anni ’70 del XX secolo venne riconosciuto il carattere alloctono del basamento e la tettonica polifasata sinmetamorfica ercinica dell’edificio a falde. Già il tedesco Teichmüller aveva identificato un importante lineamento tettonico, la “Faglia di Villasalto”, che mette a contatto le “Arenarie di San Vito” (Cambriano- Ordoviciano inferiore) con i “Calcari di Villasalto” (Devoniano medio/superiore- Carbonifero inferiore). L’elemento fu poi caratterizzato da Carmignani et al. (in uno studio del 1978, focalizzato proprio sul giacimento antimonifero) come sovrascorrimento ercinico a vergenza occidentale, marcato da un’ampia fascia milonitico-cataclastica, che separa le metareniti e metapeliti, appartenenti all’Unità tettonica del Sarrabus, dalla sottostante successione di piattaforma carbonatica pelagica, riferita invece all’Unità tettonica del Gerrei.
La sequenza carbonatica è costituita da alternanze di metapeliti carbonatiche e metacalcari grigi (“Scisti a tentaculiti” Auct.), passanti superiormente a metacalcari massivi stratificati, talora nodulari, con sottili intercalazioni di metargilliti scure carboniose (“Calcari di Villasalto” Auct. o “Calcari a Clymenie” Auct.). Fu Domenico Lovisato, in uno scritto del 1894, il primo studioso ad individuare la presenza di sedimenti del Devoniano superiore nella Sardegna sud-orientale, grazie al rinvenimento di Clymenie e Goniatites linearis nei calcari affioranti presso la miniera di Villasalto.


Il Foglio 226 “Mandas” della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000
(1a ed., 1959; rilevatori Antonio Cavinato ed Enzo Beneo)
Servizio geologico d'Italia

venerdì 14 febbraio 2014

Anche i geologi hanno un cuore (che non è di pietra!): il Lago di Scanno

di Fabiana Console e
Marco Pantaloni


In una giornata particolare, che l'iconografia commerciale vuole dedicata all'espressione dei sentimenti, vi proponiamo la scoperta di un lago perfettamente integrato in un paesaggio naturale di eccezionale bellezza caratterizzato da un suggestivo profilo, perfetto per una escursione geologico-romantica.
In Abruzzo, tra i comuni di Villalago e di Scanno, nell'alta valle del Fiume Sagittario, si trova il Lago di Scanno incastonato fra splendide cime impervie dell'Appennino centrale, meta del turismo estivo ed invernale.
Il Lago di Scanno è uno dei laghi montani di origine naturale, posto a 930 m s.l.m., tra i più estesi in Italia: ha infatti una superficie media di circa 1 kmq e raggiunge nel momento di massima piena una profondità di 36 m. Da alcuni anni però è interessato da repentini ed evidenti fenomeni di abbassamento del livello delle acque, che in poche settimane può diminuire anche di oltre quattro metri. Dopo gli eventi sismici dell’aquilano dell'aprile 2009 il fenomeno di abbassamento del livello delle acque del lago sembra essersi notevolmente accentuato.

Osservato dal belvedere di Frattura Nuova il Lago di Scanno presenta la sua peculiare forma a cuore.

L’antico centro disabitato di Frattura Vecchia, invece, è posto sulla "frattura" del Monte Genzana; proprio da questa zona si è distaccata la frana che, precipitando a valle, ha ostruito il corso del Fiume Tasso originando il Lago di Scanno, che per questo motivo viene classificato come lago di sbarramento.
Nella letteratura scientifica questo evento di frana è noto con la denominazione di “frana di Scanno”, mentre localmente viene, più comunemente, chiamata “frana di Monte Genzana” o “frana di Frattura”.
L’area del Lago di Scanno è posta nel cuore dell’Appennino centrale, in pieno dominio di piattaforma carbonatica laziale -abruzzese. Ricade nell’area del foglio geologico 378 Scanno in scala 1:50.000, realizzato dal Servizio Difesa del Suolo della Regione Abruzzo e dal Servizio geologico d’Italia e disponibile alla consultazione sul sito web dell’ISPRA (http://www.isprambiente.gov.it/Media/carg/378_SCANNO/Foglio.html)


Stralcio del foglio geologico 378 Scanno della
Carta geologica d'Italia alla scala 1:50.000 (sito ISPRA)

Dall'analisi della carta geologica è perfettamente visibile l’area di distacco del corpo di frana, profondamente segnata da un fitto reticolo di faglie che insistono su unità calcarenitiche bioclastiche paleogeniche (CFR1) deposte i facies di rampa carbonatica e scarpata e su calcareniti cretaciche in facies di scarpata-bacino.
Ai piedi del versante l’imponente accumulo caotico di grossi blocchi calcarei con matrice più o meno abbondante (AVMa1), perfettamente visibile percorrendo la strada statale 479. Il lago è impostato sul complesso torbiditico laziale-abruzzese del Miocene superiore.
La zona di accumulo della frana ai piedi del versante del Monte Genzana.
Sullo sfondo la nicchia di distacco e l'abitato di Frattura Vecchia.

Numerosi anni di studi dedicati alla datazione dell’evento hanno condotto i ricercatori a stabilire che l’evento franoso causa dello sbarramento del corso del Fiume Tasso e della formazione del lago è datato tra 12.820 e 2.200 anni fa. Recenti studi, basati su dati di natura archeologica, portano a 3000 anni fa la data più prossima.


Vogliamo qui ricordare che la zona di Scanno venne studiata, alla fine dell’800, da uno dei più illustri geologi dell’epoca, Michele Cassetti, che pubblicò i risultati dei suoi “Rilevamenti geologici eseguiti l’anno 1899 nell’alta valle del Sangro e in quelle del Sagittario, del Gizio e del Melfa” nel vol. 31 del Bollettino del R. Comitato Geologico d’Italia” pubblicato nel 1900.


Per saperne di più:
  • Angelo Caranfa (2010) - Contributo per una datazione della frana di Monte Genzana e del Lago di Scanno. Rivista abruzzese, LXIII, n. 2, aprile-giugno: 141-146; e n. 3, luglio-settembre: 250-254.
  • Bianchi Fasani G., Cercato M., Esposito C, Petitta M. (2005) - Il Lago di sbarramento di Scanno: considerazioni riguardo alle condizioni di stabilità. Il Giornale di Geologia Applicata, vol. 2, n. 1-6: 45-50.
  • Cassetti M.(1900) - Rilevamenti geologici eseguiti l’anno 1899 nell’alta valle del Sangro e in quelle del Sagittario, del Gizio e del Melfa. Bollettino del R. Comitato Geologico d’Italia, vol. 31, n. 3: 255-277.
  • Nicoletti P. G., Parise M., Miccadei E. (1993) - The Scanno rock avalanche (Abruzzi, south-central Italy). Bollettino della Società Geologica Italiana, vol. 112, fasc. 2, pp. 523-535.

domenica 9 febbraio 2014

Cowboys nell'Appennino laziale: la geologia nei western all’italiana

di Marco Pantaloni
e Alessio Argentieri

Il western all'italiana è stato un filone cinematografico che ebbe una enorme diffusione nel nostro paese negli anni ’60-’70; essendo di produzione esclusivamente italiana, venne ribattezzato spaghetti western. Protagonisti di questi film erano spesso attori agli inizi della loro carriera e che in seguito acquistarono una fama internazionale. Questo prolifico filone fece in modo che il genere, dopo un breve periodo di decadenza in seguito ai successi dei leggendari western americani, conobbe una assoluta popolarità che durò, all'incirca, un quindicennio. Nuovi fasti ha conosciuto il genere in tempi moderni, grazie all'omaggio tributato dal cinema americano con il recente “Django unchained” di Quentin Tarantino (2012).

Qui non ci soffermeremo sulle capacità e le doti artistiche dei protagonisti quanto sul contributo che le ambientazioni e i paesaggi geologici hanno dato, senza dubbio, per il successo di queste pellicole.
Gli sceneggiatori dell’epoca, per tentare di ricostruire i fondali scenografici del territorio dell’Ovest americano e, nello stesso tempo, per limitare quanto più possibile i costi delle produzioni, hanno ambientato le pellicole in alcuni dei più affascinanti paesaggi del nostro paese, attribuendo quindi loro un valore aggiunto per i geologi-cinefili.

Uno dei film che, più di ogni altro, è rimasto nella memoria collettiva è “Lo chiamavano Trinità …”, western in versione comica del 1970 diretto da E.B. Clucher (pseudonimo di Enzo Barboni), interpretato da Bud Spencer (alias Carlo Pedersoli, napoletano, già nuotatore) e Terence Hill (alias Mario Girotti, nato a Venezia ma originario di Amelia, e soprattutto - elemento rilevante per la nostra storia - fratello minore di Odoardo, professore di Geologia del Quaternario all'Università La Sapienza di Roma, anche lui con un passato da attore in “Viale della speranza” di Dino Risi del 1952). Anche nel caso di Carlo e Mario il tempo è stato galantuomo, come testimonia il David di Donatello alla carriera conferito alla coppia nel 2010.



Il film si apre con alcune riprese girate a poca distanza da Roma, lungo l’autostrada che conduce all'Aeroporto di Fiumicino, in una delle numerose cave di ghiaia e sabbia della zona, dove venne ricostruita anche la “stazione di posta” nella quale Trinità si ferma a mangiare; la stessa ambientazione venne riutilizzata, anni dopo, per girarvi un famosissimo spot pubblicitario di una compagnia telefonica che invitava a usare il telefono perché “una telefonata allunga la vita”.

Buona parte del film è poi girato nella spettacolare piana di Camposecco, una ampia distesa di doline e inghiottitoi circondata dalla faggeta dei Monti Simbruini ubicata tra Camerata Nuova e Vallepietra, compresa nell'area del Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini. Alcune scene furono ambientate lungo i fianchi della valle dove emergono numerosi hum calcarei isolati (hum è un termine di origine serbo-croata che indica i rilievi calcarei residuali non ancora demoliti dalla corrosione carsica marginale).




Le riprese dei protagonisti che, a cavallo, percorrono un alveo fluviale ghiaioso sono state girate, invece, sulle sponde del Fiume Volturno, nel comune di Venafro in Molise .



Un’altra scena significativa del film, l’incontro di Trinità con Sara e Giuditta, le due sorelle “preda del demonio”, è stata ambientata sempre nel Lazio, alle cascate di Monte Gelato nel Parco Regionale della Valle del Treja.



Solo la parte relativa al villaggio western venne realizzata negli studi di posa della Produzione De Laurentiis sulla via Pontina, oggi non più visibile.

A questo film fece seguito, l’anno successivo, il sequel “ … continuavano a chiamarlo Trinità”, diretto ancora da E.B. Clucher e interpretato sempre da Bud Spencer e Terence Hill.
Questo secondo episodio della serie fu ambientato, ancora, nella piana di Campo Secco, mentre altre scene vennero girate a Campo Imperatore, ai piedi del Gran Sasso, in Abruzzo.

Per saperne di più:
I fotogrammi pubblicati nel post appartengono a una pellicola cinematografica girata in Italia (o in territorio italiano) che sono ora nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto. Secondo la legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, le fotografie generiche e prive di carattere artistico e le riproduzioni di opere dell'arte figurativa divengono di pubblico dominio a partire dall'inizio dell'anno solare seguente al compimento del ventesimo anno dalla data di produzione (articolo 92). In accordo al testo di legge, tali "fotografie semplici" vengono definite come «immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell'arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche.

lunedì 3 febbraio 2014

Il Caso Ippolito, cinquant’anni dopo

50 anni fa, il 3 Marzo del 1964, il professor Felice Ippolito, ingegnere e geologo, docente universitario e Segretario del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare, venne arrestato su disposizione della Procura Generale di Roma.
Le indagini si svilupparono a valle di una campagna giornalistica condotta principalmente sulle pagine del Corriere della Sera e de L’Unità. I capi d’imputazione nei confronti di Ippolito furono peculato aggravato continuato, falso in atto pubblico e abuso di poteri d’ufficio. Il processo di primo grado si concluse con la condanna ad 11 anni e quattro mesi di reclusione, sette milioni di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pena, poi ridotta in appello, fu scontata da Ippolito per oltre due anni nel carcere romano di Rebibbia, da cui uscì nel marzo 1968 a seguito di un atto di clemenza del Presidente della Repubblica Saragat il quale - come leggeremo nell'autorevole testimonianza che segue - ebbe un ruolo di primo piano nella vicenda.
Su questo controverso evento della storia d’Italia, Geoitaliani si onora di pubblicare la preziosa testimonianza di chi fu amico e collega di Ippolito: il professor Carlo Bernardini, emerito di Metodi matematici per la fisica all'Università “Sapienza” di Roma, direttore della rivista scientifica “Sapere” e già Senatore della Repubblica nella VII Legislatura. Il ricordo personale di Bernardini, che con Edoardo Amaldi partecipò da vicino alle vicende umane e professionali di Ippolito, ci dà occasione per riflettere su una storia che, dopo mezzo secolo, è poco conosciuta o addirittura ignorata dalla società civile.
La prima pagina del Corriere della Sera
con la notizia dell’arresto


Felice Ippolito (Napoli, 1915- Roma 1997)

Ricordo di Felice Ippolito
di Carlo Bernardini
“Felice Ippolito era un geologo napoletano. Proveniente da una famiglia in cui il padre Gerolamo faceva parte dell’accademia, aveva avuto una formazione molto aggiornata sulle idee di Alfred Rittman; era stato preso nel CNR sotto l’ala protettiva di Francesco Giordani che ne aveva gran stima: Quando spuntò l’importanza dell’Uranio come combustibile e l’Europa si affrettò a fare nascere Euratom dalla CECA (Com. Eur. del Carbone e Acciaio), Ippolito, in ottimi rapporti con Edoardo Amaldi, si affrettò a chiedersi come reperire il minerale in Italia e avviò ricerche nel cuneese. Ma poiché Amaldi e i suoi, da bravi decisionisti, avevano spinto perché l’Italia avesse all'epoca un ruolo protagonista, aveva convinto Francesco Giordani a distaccare dal CNR un Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari, che riunisse la ricerca su scienza e tecnologia nucleare. Del CNRN Ippolito divenne ben presto Segretario generale: ad esso si dedicò interamente. Erano le strade all'epoca praticate da Enrico Mattei, Adriano Olivetti e i rari scienziati/politici con le idee chiare.
Ma il mondo era in mano ai petrolieri (le Sette Sorelle) che vedevano in pericolo il loro dominio; Mattei pagò per primo con la vita, Olivetti fu annientato dalle banche, Ippolito fu mandato sotto processo da quattro democristiani corrotti che, fiancheggiati da Saragat, temevano che Ippolito capeggiasse una fazione di tecnici che pretendeva di nazionalizzare la produzione elettrica. Sicché Ippolito, ormai indiscusso leader del CNEN, Com. Naz. Energia Nucleare, svincolato dal CNR, fu messo sotto processo per pretesi “abusi”: peculato internazionale, un reato che Arturo Carlo Jemolo dichiarò inesistente nella fattispecie. Ippolito fu condannato e incarcerato. Poi amnistiato dallo stesso Saragat divenuto intanto Capo dello Stato, fu infine reintegrato come professore Universitario, prima a Napoli poi a Roma. Una vicenda dai precedenti squallidi.Ippolito è stato, nel CNEN, un motore della ricerca scientifica italiana.”

Per saperne di più:
Carlo Bernardini (1999) La fisica nella cultura italiana del Novecento, Editori Laterza.
Lucio Russo, Emanuela Santoni (2010) Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli editore.
Marco Pivato (2011) Il miracolo scippato. Quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta, Donzelli editore.