Il diaspro è una
roccia sedimentaria silicea di origine chimica-organogena, deposta in ambiente
marino profondo, caratterizzata da grana finissima, aspetto compatto, liscio,
frattura concoide, in diverse varietà di colore, talora molto intense, dal
rosso al verde, dal nero-marrone al giallo.
Il diaspro non è
una pietra preziosa ma ha assunto, sin dagli albori della storia dell'uomo, un
valore essenziale per la sua sopravvivenza, prima, e successivamente per il suo
progresso.
Non tutti sanno, ad
esempio, che il termine “pietra di paragone”, usato ormai più che altro in
senso figurato, corrisponde proprio ad una varietà di diaspro nero (“pietra
lidia”), adoperata specie in passato per verificare (per strofinamento) i
metalli preziosi utilizzati come merce di scambio e poi come moneta, fino a
quando venne introdotto il conio, ovvero il sistema di “certificazione” del
peso e del valore del metallo da parte dei governi di emissione.
Ma l'interesse
dell'uomo per il diaspro risale alla notte dei tempi, cioè a quando iniziò a
servirsi di questa roccia, insieme ad altri materiali di seconda scelta, per la
realizzazione (intenzionale) dei più primitivi manufatti litici. Pochissime
altre rocce, infatti, potevano risultare altrettanto adatte ad essere tagliate
(tramite elementari percussioni) e a tagliare.
Possiamo quindi
considerare il diaspro una delle prime rocce di vero interesse nella nostra
storia, prima a divenire attrezzo e anche merce di scambio.
Fra i ritrovamenti
archeologici di sfruttamento del diaspro, uno dei più interessanti e antichi è
certamente quello del Monte Lama, nell'Appennino Ligure-Emiliano, la cui
scoperta si deve a un giovane archeologo autodidatta, Osvaldo Baffico,
prematuramente scomparso in un incidente stradale.
Il Monte Lama è
situato a cavallo tra le province di Parma e Piacenza, alla congiunzione delle
valli dei torrenti Ceno, Arda e Nure. Raggiunge i 1.342 m slm e occupa
un'estesa costa ad andamento meridiano, culminante a nord con la cima più
elevata del Monte Menegosa (1.356 m slm). La dorsale del Monte Lama è occupata
da un'estesa placca di diaspri rossi giurassici (spessore complessivo di
qualche decina di metri), sovrastanti, in successione rovesciata, unità
calcaree, a loro volta poggianti su argilliti o brecce poligeniche, con
elementi ofiolitici, tutte unità riferibili all'antico oceano detto
“Ligure-Piemontese”.
Le antiche frequentazioni
Le favorevoli
condizioni di esposizione e di qualità (“vetrosità”) di questi diaspri hanno
reso il Monte Lama un luogo di fortissima attrazione per l'uomo preistorico.
Recenti ricerche dimostrano che questa materia prima, unica nel raggio di
decine di chilometri, fu estremamente ricercata e diffusa per lunghissimo
tempo, dall'età della pietra a quella dei metalli.
I primi reperti
sono stati ricondotti al Paleolitico medio e superiore, all'epoca della
glaciazione wurmiana, rinvenuti all'interno di depositi eolici (loess)
interpretati come sedimentazioni terminali di fasi pleniglaciali, più fredde,
intervallate da impulsi a clima più temperato. Tali contesti climatici più
favorevoli, di cui si trova conferma nelle sequenze paleobotaniche
(palinologiche) registrate nelle torbiere circostanti, con oscillazioni
vegetazionali da steppa a prateria arborata, avrebbero avuto una durata di
alcuni millenni. Durata sufficiente a spiegare le antiche frequentazioni di
queste quote, relativamente elevate, legate all'economia di sussistenza delle
prime comunità di cacciatori-raccoglitori, che si servivano della pietra
scheggiata per il taglio degli alberi, la costruzione di capanne, la
macellazione delle prede, il trattamento di pellame e la lavorazione di ossa e
corna di animali.
Proprio in questi
orizzonti paleolitici, il cui livello più antico pare risalire a circa 50.000
anni fa, avrebbe avuto luogo, come in pochissimi altri siti in Italia,
l'avvicendamento tra l'Uomo di Neandertal e l'Uomo Sapiens, collocabile intorno
ai 30-40.000 anni fa. Reperti di entrambe le specie, infatti, sempre contenuti in
sedimenti loessici, testimoniano sia le prime frequentazioni musteriane, del
Paleolitico medio, da parte del Neandertal, sia quelle aurignaziane, del
Paleolitico superiore, da parte del Sapiens. Da notare che entrambe le specie
comparvero più di 100.000 anni fa, coesistendo dunque per molte migliaia di
anni, prima che solo il Sapiens si salvasse dall'estinzione, unico
sopravvissuto a tutte le specie del genere Homo.
Come dimostrano i
manufatti reperiti in aree circostanti, dopo l'ultima glaciazione, intorno ai
10.000 anni fa (quindi a partire dall'Olocene), altre popolazioni tornarono ad
appropriarsi di questi luoghi, per la caccia stagionale degli ungulati,
seguendo la loro migrazione primaverile dalle foreste di pianura ai boschi e
pascoli in quota, sfruttando nuovamente le pietre scheggiate del Monte Lama,
che quindi si presume abbia mantenuto la sua funzione anche nel Mesolitico e
nel Neolitico.
Ma fu durante il
periodo dei metalli, in particolare durante tutta l'Età del Rame, ovvero per
mille anni intorno al 3000 a.C., che il Monte Lama conobbe una nuova
consistente frequentazione per l'approvvigionamento e la lavorazione del
diaspro, ormai molto specializzata, anche nella produzione di semilavorati
(“preforme”), utilizzati come merce di scambio, anche da “esportazione”.
Numerosi ritrovamenti appaiono infatti come forme incomplete di cuspidi di
freccia (elementi più piccoli) o lame di pugnale (elementi di maggiori
dimensioni), per la cui realizzazione ci si accontentava della varietà più
opaca del diaspro, trascurata dall'officina paleolitica che aveva potuto
sfruttare quella più pregiata.
L'interesse delle
comunità preistoriche e protostoriche per il Monte Lama fu talmente intenso e
duraturo da diffondersi ben oltre i suoi apparenti confini morfologici. Non è
un caso che nelle catene operative di questa “fabbrica a cielo aperto” si
riscontrino, in proporzione, pochi prodotti finiti e molte preforme o scarti di
lavorazione, anche in roccia “alloctona” (cioè estranea all'affioramento).
Contestualmente, sono riferiti diversi ritrovamenti di diaspri, con tutta
probabilità di questi diaspri, in aree distanti anche diverse decine di
chilometri. Ciò dimostra chiaramente contatti e spostamenti più o meno
organizzati di individui, singoli o in gruppi, e di merci. In altre parole,
l'industria di Monte Lama non si limitava alla tecnologia della scheggiatura
del diaspro, ma prevedeva pure la distribuzione dei materiali, in una sorta di
commercio all'ingrosso ante-litteram!
Diaspro scheggiato a forma di ogiva, rinvenuto sul Monte Lama in località Ronco del Gatto (Bardi). |
La “Collezione Baffico”
La scoperta dei
giacimenti di Monte Lama si deve a Osvaldo Baffico, nato a Savona nel 1944 e
morto a Isola del Cantone (GE) nel 1979. Laureato in economia e commercio e
ricercatore presso la Facoltà di Economia dell'Università di Genova, fu un
appassionato archeologo autodidatta che condusse, fin da quando era studente
liceale e per un arco di tempo di 10-15 anni, un'intensa attività di
ricognizione, prevalentemente di superficie, spinto da un entusiasmo esemplare
e da un'innegabile intuizione sul valore dei reperti.
Sostenuto e talvolta
accompagnato dai genitori Jole ed Erminio, raccolse un'ingente quantità di
materiale, decine di migliaia di reperti siglati e catalogati, corredati da un
“quaderno di campagna” le cui annotazioni hanno guidato i ricercatori
successivi nel ritrovamento degli originari siti di esplorazione (più di
trenta), stimolando nuove attività di analisi.
La Collezione
Baffico si trova ora a Genova, sotto la tutela della Soprintendenza
Archeologica della Liguria, che ha riconosciuto gli intenti positivi di quel giovane
ricercatore attento e scrupoloso e il suo prezioso contributo allo sviluppo
delle conoscenze scientifiche sul tema.
Come i nostri
lontani predecessori seppero individuare e utilizzare ampiamente la
"montagna delle lame di pietra", così Baffico e gli altri studiosi,
nella loro riscoperta, hanno saputo metterne in luce il valore, altrimenti del
tutto ignorato.
I reperti raccolti
si sono rivelati una testimonianza assai preziosa, un modesto ma potente
strumento didattico a disposizione di tutti, per vedere, comprendere e
conservare i segni del nostro territorio e anche riflettere sull'importanza di
una roccia così “umile” quanto utile per il destino stesso dell'umanità.
Attenzione:
i ritrovamenti e le scoperte di materiale archeologico sono regolati dal D.Lgs.
n. 42/2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Per saperne di più:
(1)
Società Geologica Italiana (1994), collana Guide Geologiche Regionali, Vol. 6, Appennino Ligure-Emiliano, Itinerario 8 (a cura di E. Costa, P.
Vescovi e G. Zanzucchi), BE-MA editrice.
(2)
Ghiretti A. (2003), Preistoria in
Appennino. Le valli parmensi di Taro e Ceno, Grafiche STEP, Parma.
(3)
Bertoldi R. (1980), Le vicende
vegetazionali e climatiche della sequenza paleobotanica wurmiana e postwurmiana
di Lagdei (Appennino Settentrionale), in “L'Ateneo Parmense” Acta
Naturalia, V 16(3), pp. 147-175.
(4)
Negrino F. (2003), Modificazioni
tecno-tipologiche ed utilizzo delle materie prime nell'Appennino tesco-emiliano
e nell'arco ligure tra Paleolitico medio recente e Paleolitico superiore antico,
tesi di dottorato di ricerca in Archeologia Preistorica, XIII ciclo
(1998-2002), Università di Roma “La Sapienza”, inedita.
(5)
Felloni G. (1979), Necrologie - Osvaldo
Baffico, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Nuova Serie XX
(XCIV) Fasc. II (biblioteca digitale).
(6)
Convegno “La montagna dei coltelli di
pietra” (2000), Bardi (PR)
(7)
Convegno “Preistoria e protostoria
dell'Emilia-Romagna” (2010), Modena
http://www.comune.modena.it/museoarcheologico/servizi/convegnoiipp.shtml
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