sabato 27 dicembre 2014

Dinosauri in Carne e Ossa - Scienza e Arte riportano alla vita i dominatori di un Mondo perduto

di Marco Romano
Riproduzioni in “carne e ossa” di Diplodocus (sulla destra)
e Allosaurus al Dipartimento di Scienze della Terra,
Università di Roma "La Sapienza"

I “Dinosauri in Carne e Ossa” sbarcano alla Sapienza ed è subito meraviglia. 
Meraviglia negli occhi dei passanti curiosi, che, per un attimo, dimenticano il tam tam quotidiano di un fagocitante lunedì pre-natalizio. Meraviglia nei volti di studenti e dipendenti dell’università, che, giunti ignari in Dipartimento, si trovano di fronte la presenza ingombrante dei bestioni del Giurassico, in tutta la loro maestosa bellezza. Il colpo d’occhio è da brivido, per qualche istante spariscono scadenze, esami da sostenere, lavori da chiudere, ultimi regali da acquistare. Si scattano centinaia di foto, i famosi “selfie” della generazione “social network”, si porta a casa un sorriso inaspettato e in tutti i volti traspare la stessa emozione: meraviglia.


Fedele ricostruzione di Spinosaurus aegyptiacus
presso il Giardino sperimentale
del Dipartimento di Biologia ambientale.
Meraviglia e curiosità: questo il binomio imprescindibile da cui scaturì la fontana vivace di dubbi e domande nel bambino di ieri; binomio che deve, o dovrebbe rappresentate, il motore genuino del ricercatore e scienziato di oggi. La stessa meraviglia e curiosità che ha portato un gruppo di artisti, artigiani e paleontologi italiani a concepire il progetto ambizioso e di successo “Dinosauri in Carne e Ossa - Scienza e Arte riportano alla vita i dominatori di un Mondo perduto” ospitato a partire dal 27 dicembre presso gli ambienti del museo di Paleontologia del Dipartimento di Scienze della terra e del Giardino sperimentale del Dipartimento di Biologia ambientale alla Sapienza, Università di Roma.


L’artista Antonio Massari alle prese con gli ultimi ritocchi
prima della grande inaugurazione dell’esposizione.


lunedì 22 dicembre 2014

Portasanta

di Marco Pantaloni

Nel periodo natalizio molti hanno la possibilità di vedere immagini riprese nella Basilica di San Pietro in Roma; pochi sanno, tuttavia, che gli stipiti della Porta Santa della stessa Basilica, così come quelle delle Porte Sante delle Basiliche di S. Paolo, di S. Maria Maggiore e di S. Giovanni in Laterano, sono realizzati con una particolare pietra ornamentale, il cui nome deriva proprio dall'uso in questa circostanza: la pietra usata si chiama, infatti Portasanta.


L'originario nome latino di questa bellissima pietra ornamentale era “Marmor chium” perchè derivava dalle cave presenti nell'isola di Chio, nel Mar Egeo oppure, erroneamente, “Marmor iassense”dalla città di Iasos, in Asia minore. Si trovano anche indicazioni sull'uso del nome Pietra Claudiana perché era la preferita dall'imperatore Claudio Tiberio.
I Romani usarono il Portasanta, per la prima volta, per la pavimentazione della basilica degli Horti di Cesare e, in seguito, nella Basilica Emilia, nella Basilica Giulia e nel Tempio della Concordia, a Roma, oltre che nel Teatro di Pompei.

Il Portasanta è una roccia sedimentaria clastica di origine tettonica a composizione prevalentemente dolomitica. Contiene resti fossili, difficilmente riconoscibili; il giacimento dell'isola di Chio sarebbe da riferire a rocce calcareo-dolomitiche triassiche. Si tratta di una breccia, caratterizzata da un aspetto estremamente variabile; è caratterizzato da una base rosata, venature dal rosso al rosso-bruno, con clasti giallo-arancio, bruni, grigi, di forma variabile e dimensioni da millimetriche a centimetriche. I clasti sono separati da venature biancastre o rosse, larghe pochi millimetri, aventi andamento sinuoso e talora disposizione intrecciata (fonte ISPRA).

L'eterogeneità di questa pietra ornamentale ha dato luogo a numerose varietà di diverso aspetto: il "Portasanta brecciato pavonazzo" dalle macchie rosso-violacee; il "Portasanta lumacato" con fondo rosso-violaceo e macchie biancastre (resti fossili) di forma tondeggiante e dimensioni millimetriche; il "Portasanta bigio" con una brecciatura meno evidente, con un fondo di colore grigio piuttosto uniforme e venature giallo-brunastre larghe pochi millimetri.
Un'altra varietà dello stesso litotipo è il cosiddetto Portasanta Fallani, il cui nome deriva dalla famiglia proprietaria delle cave di Caldana, frazione di Gavorrano in provincia di Grosseto, sulle ultime propaggini delle Colline metallifere. Questa varietà, più chiara e rosata rispetto al litotipo classico, è stata estratta fino al 1970. Si tratta di un prezioso materiale dal quale, grazie alla compattezza dei blocchi estratti, era possibile ricavare colonne monolitiche anche di grandi dimensioni, come dimostrano le splendide colonne all'interno del Vittoriano o del palazzo di Montecitorio.

Il Portasanta fu uno dei marmi colorati più usati nella Roma imperiale, a partire dalla fine del I sec. a.C. Il suo impiego raggiunse il massimo sviluppo agli inizi del II sec. d.C., sotto l'imperatore Traiano. Venne riutilizzato fino al XVII secolo, per la realizzazione di colonne e lastre di rivestimento. E' stato usato durante il Rinascimento anche in Toscana per la costruzione di importanti monumenti come, ad esempio, la Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, il Duomo di Siena e la Chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa.
Gli impieghi di questo litotipo sono per la realizzazione di colonne, trapezofori e basamenti, ma anche di rivestimenti , elementi ornamentali e statuaria di piccole dimensioni.

Il museo dell'ISPRA, nella prestigiosa collezione Pescetto appartenente alle collezioni litomineralogiche, conserva tre esemplari di questa roccia ornamentale, provenienti dagli scavi di Roma antica; di questi il campione 261.D è della varietà "Portasanta della Madonna dell'Orto" mentre il campione 263.D è della varietà "Portasanta bigio", e proviene dalle Terme di Caracalla.



Per chi, in visita a Roma, volesse vedere questo splendido litotipo, può osservarlo anche nelle vasche delle fontane laterali di Piazza Navona, in una parte della vasca della fontana di Piazza Colonna, nelle colonne degli altari di S. Sebastiano e della Presentazione nella Basilica Vaticana e in una coppia di colonne della navata a S. Agnese fuori le mura. Anche nella Villa Adriana a Tivoli è impiegato diffusamente in tarsie pavimentali e in alcune colonne.




Per saperne di più:

giovedì 4 dicembre 2014

La santa protettrice dei Geologi: Santa Barbara benedetta, liberaci dal tuono e dalla saetta


Un'immagine di Santa Barbara
 tratta dalla rivista
Mineria y Metalurgia del 1941
di Fabiana Console

In tutto il mondo, oggi si festeggia Santa Barbara, protettrice della Marina Militare e dei Vigili del Fuoco, ma anche dei geologi, dei montanari, dei lavoratori nelle attività minerarie e petrolifere, degli architetti, dei cantonieri, degli artisti sommersi e dei campanari, nonché custode delle armi di artiglieria di torri e fortezze.

La Santa nacque tra il 271 ed il 272 d.C., a Nicomedia di Bitinia, nell’Asia Minore; visse e subì il martirio per aver perseguito la fede cristiana tanto che il 4 dicembre dell’anno 290 venne condannata a morte mediante decapitazione ed il padre, in preda ad una vera e propria frenesia giustizialista, si offrì quale carnefice.

Peggio per lui! Non l'avesse mai fatto! Mentre usciva dalla torre (dove Barbara era stata rinchiusa) e faceva ritorno a casa dopo aver ucciso la figlia, un fulmine a ciel sereno – le cronache riportano essere una assolatissima giornata dicembrina - lo colpì, facendolo diventare cenere.

Quel "fulmine" improvviso e meteorologicamente immotivato ha ispirato il patronato della Santa contro i fulmini e le saette.

Fu seppellita in una zona compresa tra i territori che oggi fanno parte dei comuni di Scandriglia, nella provincia di Rieti, e Montorio Romano, nella provincia di Roma.

Secondo una tradizione locale di Rieti, il corpo di Santa Barbara si trova custodito in una cappella della cattedrale.

Dopo la scoperta della polvere da sparo, che riuniva in sé la potenza del lampo e quella del fulmine, Barbara, che secondo la leggenda non aveva mai toccato un'arma in vita sua, divenne anche la patrona dei Lanzichenecchi, che portavano gli archibugi, dei minatori e di tutte le categorie che avevano a che fare quotidianamente con polveri esplosive e munizioni.

Santa Barbara, ha anche dato il nome al deposito di munizioni sulle navi, che infatti si chiama il "santabarbara"!

Successivamente la popolare santa divenne la patrona dei Vigili del Fuoco che continuano a festeggiarla indisturbati, nonostante dal 1970 la Chiesa ha cancellato dal calendario liturgico romano la festività universale di santa Barbara.

Patrona della Città di Rieti, di particolare suggestione è infatti la tradizionale processione sulle acque del Fiume Velino, che attraversa la città; durante la festa la statua di Santa Barbara viene trasportata da un’imbarcazione del comando dei Vigili del Fuoco, mentre la cittadinanza raccolta assiste dalle sponde del fiume.

Nella cultura tradizionale e popolare delle miniere è consuetudine  rivolgersi a Santa Barbara recitando la seguente preghiera: "Santa Barbara benedetta, liberaci dal tuono e dalla saetta". Per decisione di Enrico Mattei, suo devoto, a lei è stata dedicata la grande chiesa costruita a Milano nel quartier generale del gruppo ENI (Metanopoli).


Dimenticavo….


Auguri alle oltre 30.000 italiane che si chiamano Barbara e a tutti i geologi che dei “fulmini a ciel sereno” non hanno mai paura.


lunedì 24 novembre 2014

Una Finestra su Bobbio


 di Giovanna Baiguera
Fig. 1 - Ponte Gobbo, uno dei simboli di Bobbio
(opera di origine romana,
dalle tipiche arcate irregolari)

La valle del Fiume Trebbia, nel piacentino, costituisce un luogo di importanza unica nella storia dell'umanità e delle geoscienze, fatalmente incardinata sulla cittadina di Bobbio.
Bobbio deve la sua gloria innanzitutto a San Colombano e all'Abbazia da lui fondata nel 614, esattamente 1400 anni fa, poco prima della sua morte.
Furono i regnanti longobardi Teodolinda e Agilulfo ad affidare al monaco irlandese Colombano quest'area produttiva, dove abbondavano acque correnti (quindi pesci e mulini per le macine) e terre da coltivare (soprattutto per vino, olio e farina di castagne), adatte anche all'allevamento del bestiame, specialmente di ovini, preziosi per la realizzazione della pergamena. La zona era anche nota, sin dai tempi dei Romani, per le sorgenti termominerali, utilizzate per la produzione di sale e per uso terapeutico, attività ben presto assunte tra le occupazioni dei monaci.
La scelta del luogo non fu casuale e si rivelò strategica dal punto di vista politico, religioso e culturale.


venerdì 14 novembre 2014

Alfonso Vinci (1915-1992): geologo, filosofo, alpinista, esploratore

di Andrea Bollati

Alfonso Vinci esplorò montagne e pareti mai salite in Italia e in Sud America, raggiunse remote aree dell'Amazzonia e trovò il giacimento di diamanti più importante del Venezuela; durante le spedizioni entrò in contatto con popolazioni che non avevano mai visto gli "uomini di barba". Dei suoi viaggi ed esplorazioni scrisse diversi magnifici libri.

Alfonso Vinci è nato nel dicembre del 1915 a Pilasco, in Valtellina, e per diversi anni abitò a Como, dove la famiglia si trasferì quando il padre siciliano (Calogero Vinci) avviò un’attività come elettricista.

Gli studi e l’attività alpinistica
Conseguita la maturità classica, nel 1933 Alfonso Vinci si trasferì a Milano dove si iscrisse alla facoltà di Lettere, dove studiò Filosofia. Si iscrisse poi alla facoltà di Scienze Naturali e si laureò con la specializzazione in Geologia nel 1940.
Durante gli anni universitari fu molto intensa la sua l’attività alpinistica e fu allievo di Riccardo Cassin, uno dei più forti alpinisti del ‘900 (che lo ricordava così: "Era il migliore de quii de Com, aveva determinazione e una forza fisica non comune…..” ). Nel 1934 Vinci era già capocordata e ripeteva, con i suoi compagni, le più difficili arrampicate della Grignetta (montagna lombarda e palestra di arrampicata di famosi alpinisti come Emilio Comici, Riccardo Cassin, Walter Bonatti,  ecc.) e quando gli era possibile si recava in Val Màsino e sulle Dolomiti, specialmente in Civetta dove salì, la Via Solleder alla Nord-Ovest e la Tissi alla Torre Trieste.
Nel 1937 fu chiamato nell'esercito e frequentò come allievo ufficiale la Scuola militare di alpinismo di Aosta. Poi continuò gli studi universitari e l’attività alpinistica. Le vie più importanti aperte nelle Alpi furono realizzate dal 1936 al 1939, poi la sua attività fu interrotta dal richiamo alle armi. La sua via sicuramente più conosciuta e ripetuta (oggi una via classica) è lo Spigolo Vinci al Cengalo, un aereo spigolo di 350 m su splendida roccia granodioritica. Altre vie aperte, “minori”, denotano una costante ricerca delle difficoltà e delle tecniche più avanzate. Nel 1939, la salita della remota parete nord ovest del monte Agnér in Dolomiti (alta 1300 m e allora ancora inviolata), gli varrà la Medaglia d'oro al valore atletico.
Nel 1940 fu ammesso al Club Alpino Accademico Italiano e con l’entrata in guerra dell’Italia, fu chiamato alle armi quale ufficiale di complemento negli alpini. Nel 1941 si imbarcò per l’Albania. Tornato lo stesso anno, ebbe l’incarico di istruttore di roccia presso la Scuola militare di alpinismo di Aosta, prima a Madonna di Campiglio, poi al Catinaccio.
Nel 1942-43 si trovava in Francia, a Grenoble, come tenente degli Alpini (nel Battaglione Sciatori Monte Rosa), quando l’8 settembre giunse la notizia dell’armistizio, abbandonò la caserma e partì a piedi per raggiungere Talamona, dove iniziò a organizzare i primi gruppi della Resistenza valtellinese.


martedì 11 novembre 2014

Un “Sentiero Geologico” nel Parco Nazionale della Sila

di Anna Rosa Scalise

Il Parco Nazionale della Sila, dopo il Pollino e l’Aspromonte, è il terzo Parco della Calabria. Si estende per 737 kmq nelle provincie di Cosenza, Catanzaro e Crotone e racchiude tra le zone più selvagge e più affascinanti della regione. Vaste foreste ed estesi altopiani offrono incantevoli paesaggi che si sporgono sul Pollino, sul Mar Tirreno, sul Mar Ionio e sull’Aspromonte.
Il Parco, istituito nel 1997, tutela uno dei più significativi sistemi di biodiversità e fa parte della rete mondiale dei siti di eccellenza dell’Unesco come riserva della Biosfera italiana.

La Sila occupa il cuore della Calabria: è un vasto acrocoro a forma rettangolare, posto in direzione N-S nella parte centrale della Regione e si sviluppa per circa 1700 kmq in aree relativamente pianeggianti comprese tra 1200 e 1400 m s.l.m.

La superficie sommitale del massiccio della Sila, in riferimento alla quale si usa la definizione di Altopiano Silano, conserva ancora i caratteri di una vasta spianata continentale, evoluta in clima caldo-umido tra il Pliocene superiore ed il Pleistocene inferiore con un intenso stato di alterazione nelle rocce affioranti tale da formare una superficie di erosione, con morbide dorsali, da cui si originano i principali fiumi della regione. Le morfologie delle valli, in alcuni punti, si presentano larghe e piatte come risultato del modellamento glaciale attivo fino a circa 10.000 anni fa. Le valli separano cime arrotondate a forma di cupola: le più importanti sono Botte Donato (1929), Montenero (1881) e Gariglione (1765).

Il paesaggio cambia repentinamente dai cigli delle spianate sommitali fino ai 600 m s.l.m., dove si riconoscono i piani di faglia che hanno agito sull’immenso innalzamento della regione. Le ricostruzioni geotettoniche datano l’emersione del massiccio silano a circa 7 milioni di anni fa con un tasso di sollevamento di circa 0.2-0.4 mm/anno. Sui versanti scoscesi si sono impostate valli fortemente incise, gole lunghe e strette ed estese zone franose.

martedì 4 novembre 2014

La pietra del Carso e il Sacrario militare di Redipuglia

di Marco Pantaloni


Nel giorno celebrativo dell'anniversario della fine della prima guerra mondiale per l'Italia, festa dell'Unità nazionale e Giornata delle Forze Armate, e nell’anno della ricorrenza del centenario della Grande Guerra, Geoitaliani propone un modesto contributo, su questo tema così profondo, da parte della nostra disciplina.
In questo post parleremo della pietra del Carso, non solo perché costituì il substrato sul quale molte migliaia di uomini hanno combattuto e perso la vita ma anche perché, con tale pietra, è stato realizzato il grande Sacrario militare di Redipuglia, nel quale gli stessi uomini trovarono sepoltura.

Giuseppe Ungaretti, il 5 agosto 1916, dal Valloncello di Cima Quattro sul Monte San Michele scrisse la sua struggente poesia “Sono una creatura”, nella quale la pietra calcarea diventa simbolo della sofferenza e del dolore:

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata.
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede.
La morte
si sconta
vivendo.

Lasciando ai lettori le sensazioni nell’interpretare questi versi, cerchiamo ora di descrivere il materiale del quale il Sacrario di Redipuglia è costituito.

Pietra del Carso o pietra di Aurisina
La pietra di Aurisina è un calcare molto puro, compatto, omogeneo, stratificato in potenti bancate, con colore di fondo grigio chiaro. In prima analisi le distinzioni tra le diverse varietà dipendono dalle dimensioni, dalla classazione, dalla quantità e dalla distribuzione della frazione bioclastica. I fossili, quasi sempre in frammenti (bioclasti), sono costituiti da lamellibranchi, soprattutto Rudiste e in subordine foraminiferi, resti algali e rari briozoi. Presentano ottime caratteristiche petrografiche, con tenori di carbonato di calcio che arrivano al 99.5%, e fisico-meccaniche, tali da permetterne una facile lavorabilità e lucidatura, offrendo materiali aventi colore e fioritura omogenee.
Nel comparto merceologico viene comunemente chiamato marmo, anche se la comunità dei geologi conosce bene la differenza tra un marmo (che è una roccia metamorfica) e quei materiali litoidi adatti al taglio e alla lucidatura. La pietra di Aurisina presenta caratteristiche particolarmente elevate di durezza, compattezza e resistenza. Le varietà principali sono Aurisina Chiara, Aurisina Fiorita, Aurisina Granitello e Roman Stone.


Pietra di Aurisina
facies Aurisina fiorita
Viene cavato fin dall’epoca repubblicana all’interno di un vasto bacino estrattivo chiamato Ivere; le diverse varietà derivano da orizzonti del membro di Borgo Grotta Gigante, della formazione dei calcari del Carso triestino, di età Cretacico superiore. Dal bacino dell’Ivere è stato estratto il materiale usato nella X Regio romana per costruzione di Aquileia, allora il più importante centro della parte orientale della penisola. Un altro monumento dell’epoca realizzato con la pietra di Aurisina è, probabilmente, il monolite che copre il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, anche se altri centri istriani rivendicano la provenienza.
Le cave tornarono ad avere grande sviluppo in età asburgica; per il trasporto del materiale estratto venne addirittura costruita una diramazione della ferrovia Trieste-Vienna. Ciò permise di trasportare i blocchi di materiale estratto in Austria, Ungheria e Cecoslovacchia. A Vienna venne realizzato con la pietra del Carso il Palazzo Imperiale e il Parlamento, mentre a Budapest venne usata per il Parlamento e l’Opera. La forza lavoro impiegata nelle cave e nei laboratori del Carso era di circa 3000 operai.




In Italia la pietra d’Aurisina venne sfruttata, tra le due guerre, per la costruzione della Stazione Centrale di Milano; si stima che vennero fornite quasi 38.000 tonnellate di materiale, non solo per pavimentazioni e conci ma anche per statue e fregi.
Vanno ricordate poi alcune tra le numerose opere realizzate all’estero: Dai Iki Life Insurance Building” di Sendaj City (Giappone); le opere di rivestimento interno nelle stazioni delle metropolitane di Atlanta (USA) e Francoforte (Germania); centri direzionali alla Defense a Parigi, oltre al Palazzo di Giustizia di Padova e i pavimenti e le opere di decorazione della 3 Linea della metropolitana di Milano.

Ma qui vogliamo ricordarne l’uso nella realizzazione del Sacrario militare di Redipuglia, dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale.
I lavori per la realizzazione del Sacrario vennero affidata alla ditta Marchioro di Vicenza, un’impresa che durante la guerra aveva lavorato alla costruzione di trincee e opere difensive e, nell’immediato dopoguerra, alla costruzione di caserme, fabbriche, opere pubbliche e monumenti. Vennero impiegati oltre trecento operai locali che lavoravano oltre dieci ore al giorno, sabato compreso.
Il versante del rilievo denominato quota 89 si mostrò, come del resto tutte le alture del Carso, difficile da lavorare, se non con l’utilizzo di macchinari ed esplosivi. Anche la piantumazione dei cipressi che contornano la scalinata venne effettuata con l’uso della dinamite, e il materiale di riempimento trasportato dai dintorni di Grado.
Il giorno dell’inaugurazione la colossale opera non era ancora completata, mentre il costo era salito da 20 a 45 milioni di Lire, soprattutto per la svalutazione e le sanzioni collegate alle Guerra d’Africa.
Il disegno architettonico del Sacrario ricorda l'ascesa al cielo e la redenzione dei morti e dei vivi abbandonando la simbologia guerresca.



Unico elemento rimane il maestoso altare del duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, che aveva chiesto di poter riposare tra i suoi soldati; si tratta da un imponente monolite di marmo rosso della Val Camonica squadrato e lavorato sul posto. Accanto a questo trovavano posto i sacelli dei suoi generali (Chinotto, Monti, Paolini, Prelli, Riccieri) ricavati in blocchi di granito grigio.



Nei due anni di lavoro l’intera collina venne rivestita di pietra bianca del Carso.
Dal piazzale inferiore parte una scalinata fiancheggiata da lapidi in bronzo con i nomi delle località luogo delle battaglie più cruente, per finire allo slargo con la tomba del duca d’Aosta.



Da qui, l’imponente scalinata di 22 gradoni incorniciati dalla parola “presente” scolpita nella pietra del Carso, nell'Aurisina fiorita.





Per saperne di più:

  • Cucchi F., Pirini Radrizzani C. & Pugliese N. (1987) - The carbonate stratigraphic sequence of the karst of Trieste (Italy). Mem. Soc. Geol. It., 40, 35-44, Roma.
  • Carulli G.B., Onofri R. (1969) - I marmi del Carso. Unione region. Cam. Comm. Ind. Art. Agric. Regione Friuli-Venezia Giulia, , Ed. Del Bianco, 101 pp., Udine.
  • Cucchi F. & Gerdol S., a cura di, (1986) - I marmi del Carso triestino. Ed. Camera di C.I.A.A. di Trieste, 1-195. 
  • Gerdol S. (2001) - Valenze geologiche e morfologiche. In: Piano Territoriale Regionale Particolareggiato della Costiera Triestina - Gruppo di progettazione coord. Arch. Semerani L. RAFVG - Direzione Regionale Pianificazione Territoriale (lavoro inedito). 
  • Gerdol S. (2001) - Carso, nel cuore d'Europa, affacciato sul mare, un antico mondo da scoprire (CD ROM). P.O.Interreg 2 - Comune di Trieste.
  • Il Territorio, semestrale di storia, memoria, cultura, fotografia, ambiente. Edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese.
  • http://www.liceopetrarcats.it/old_site/sperimentazione/sitocarso/economia.htm


venerdì 24 ottobre 2014

24 ottobre 1918: la battaglia di Vittorio Veneto

di Fabiana Console
Foglio geologico n.37 Bassano del Grappa
alla scala 1:100.000
Ufficio Idrografico del Magistrato delle Acque
Venezia - 1946
(fonte ISPRA - Servizio geologico)


Oggi noi di Geoitaliani vogliamo ricordare, patriotticamente, la battaglia di Vittorio Veneto (o Terza battaglia del Piave) che avvenne il 24 ottobre del 1918 nella zona compresa tra il Fiume Piave, il Massiccio del Grappa, il Trentino e il Friuli.
Notoriamente questo fu l'ultimo, ma non meno cruento, scontro armato tra l'Italia e l'Impero austro-ungarico nel corso della prima guerra mondiale. L'attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli alleati che erano già passati all'offensiva generale sul fronte occidentale, ebbe inizio in questa data ma l'Impero austro-ungarico dava già segni di un inarrestabile crollo soprattutto a causa delle tensioni interne di ordine politico-sociale tra le diverse nazionalità presenti nello stato asburgico. La battaglia di Vittorio Veneto fu caratterizzata da una fase iniziale duramente combattuta nella quale l'esercito austro-ungarico - Gruppo Belluno - fu in grado di opporre valida resistenza sia sul Piave che sul Monte Grappa causando la morte, durante il primo giorno di battaglia, di oltre 3.000 italiani. Dopo 4 giorni di durissimi scontri seguì un improvviso e irreversibile crollo della difesa austriaca. Il 29 ottobre le truppe italiane rientrarono nelle prime città del Veneto occupate dal nemico da quasi un anno e liberarono le popolazioni che avevano duramente sofferto il dominio austro-ungarico.
Con la progressiva disgregazione dei reparti, le defezioni e gli ammutinamenti tra le molte minoranze nazionali, che favorirono la rapida avanzata finale dell'esercito italiano fino a Trento e Trieste, il 4 novembre 1918 venne concluso l'armistizio di Villa Giusti che sancì la fine dell'Impero austro-ungarico e la vittoria dell'Italia nella Grande Guerra.
Ricordiamo questo evento storico, come di consueto, attraverso la pubblicazione di una carta geologica; in questo caso si tratta del foglio geologico n.37 Bassano del Grappa (prima edizione) della Carta Geologica d'Italia alla scala 1:100.000, a cura del Ministero dei Lavori Pubblici, Ufficio Idrografico del Magistrato alle Acque, stampato nel 1946.
Questo foglio - che non ha visto una seconda edizione - insieme a tutti quelli della zona Veneto-friulana fa parte della serie della Carta Geologica delle Tre Venezie.
Le gravi condizioni politico-economiche degli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale bloccarono temporaneamente la realizzazione del progetto della Carta Geologica d'Italia - iniziato nel 1877 - fino a quando, grazie al R.D. n. 346 del 17 febbraio 1927 (Riordinamento del Servizio Geologico dello Stato), l'attività di rilevamento riprese con la produzione della Carta geologica delle Tre Venezie, in collaborazione con il Magistrato delle Acque.

La carta è conservata presso la Biblioteca ISPRA - Archivio cartografico del Servizio Geologico d'Italia. 
E' visualizzabile sul sito internet dell'ISPRA (link).

lunedì 13 ottobre 2014

Torello Martinozzi, minatore di Gavorrano

di Alessio Argentieri



La storia delle conoscenze geologiche in Italia è legata, in epoca moderna, allo sviluppo dell’industria mineraria. Protagonisti del progresso tecnologico e culturale nazionale furono non solo gli ingegneri del Corpo Reale delle Miniere sabaudo, poi confluito nel Regio Ufficio Geologico, ma anche tutti i lavoratori del sottosuolo dei diversi distretti italiani. I minatori del nostro Paese hanno più volte dovuto- fino ai giorni nostri- difendere con i denti il loro impiego umile, assai rischioso e poco pagato, quando le logiche del mercato internazionale inducevano le imprese a sospendere le attività estrattive del sottosuolo italiano.
In omaggio alla grandissima dignità di questa categoria, ci teniamo particolarmente a riservare ai minatori il posto che spetta loro nel Pantheon di Geoitaliani.

Abbiamo già parlato in passato delle storie di Villasalto (Sardegna) e di Arsia– Raša (Istria); a breve racconteremo dei minatori delle Colline Metallifere della Toscana.

In previsione di ciò, ci associamo oggi al saluto ad uno di loro, Torello Martinozzi da Gavorrano (Grosseto), invitandovi alla lettura delle belle parole che il Direttore Salvatore Veltri gli ha dedicato su Attualita.it



venerdì 3 ottobre 2014

Le Tre Fontane e il martirio di San Paolo

di Marco Pantaloni

A Roma, sulla trafficata Via Laurentina, in prossimità del complesso sportivo dell’Acqua Acetosa e del Luna Park, ormai abbandonato, sorge un luogo di pace, isolato dal traffico e dal rumore, simbolo per la Cristianità.
Si tratta del complesso abbaziale delle Tre Fontane, che presenta i caratteri di un monastero fortificato, come si vede già dal portale d'ingresso, il cosiddetto Arco di Carlo Magno.

L’Abbazia delle Tre Fontane sorge in una piccola valle attraversata dal tracciato dell’antica Via Laurentina; la zona veniva chiamata, in antichità, “Acquae Salviae”. Si presume che il toponimo derivi dall’associazione dell’abbondanza delle acque con il nome della famiglia proprietaria dei terreni in tarda epoca latina.


L'area delle Acquae Salviae (tratta da Google Earth)

La storia di questo luogo risale alla metà del VII secolo, quando è attestata la presenza di un “abate Giorgio, del monastero di Cilicia che sorge alle Acque Salvie della nostra città”. Il nucleo originario del complesso, quindi, fu quello greco-armeno, a cui viene attribuita la fondazione della chiesa che oggi si chiama Santa Maria Scala Coeli.

Alla fine dell’XI secolo, col decadimento di importanza del monastero armeno e lo sviluppo del potere dei Cluniacensi, l’abbazia e i possedimenti passarono, per pochi decenni, a questi ultimi. In seguito, poi, l’intera area passò dai Cluniacensi ai Cistercensi, che edificarono la Chiesa Abbaziale.

Dopo lunghi secoli e varie vicissitudini, nel 1808 l’Abbazia fu soppressa dai francesi, che dispersero il patrimonio; solo libri e archivi vennero trasferiti in Vaticano. La valle delle acquae salviae, abbandonata alla natura, si impaludò e l’area venne infestata dalla malaria.
Nel 1867, 18° centenario del martirio dei Santi Pietro e Paolo, grazie ad una donazione francese venne insediata nell’antica abbazia una comunità di Trappisti che provvidero al restauro della basilica e alla bonifica dell’area. La bonifica fu realizzata per mezzo di canalizzazioni, piantumazione di eucalipti e l'interramento di uno stagno.





Cercando un filo logico che leghi questo luogo alla nostra disciplina, non è l’aspetto storico-architettonico quello che suscita la nostra curiosità, bensì l’origine della denominazione del luogo: le Tre Fontane.
Secondo la tradizione cristiana, il 29 giugno del 67 d.C. fu proprio nella valle delle acquae salviae che San Paolo di Tarso venne decapitato; la testa dell’”apostolo dei Gentili”, il principale missionario del Vangelo di Gesù, cadendo a terra rimbalzò tre volte. In ciascun punto scaturì una sorgente, distanziata pochi metri una dall’altra.
Queste sorgenti si trovano all’interno della suggestiva Chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, costruita nel V secolo sul luogo dove l'apostolo fu, secondo la leggenda, martirizzato e decapitato, come recita la grande lastra marmorea posta sull'architrave della facciata: "S. Pauli Apostoli Martyrii Locus Ubi Tres Fontes Mirabiliter Eruperunt”, ossia "Luogo del martirio di S.Paolo Apostolo dove tre fonti sgorgarono miracolosamente".










Già Andrea Bacci nel 1571, nel suo trattato De Thermis (un libro sulle acque, la loro storia e le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo dalla società scientifica papalina e fu oggetto di molte ristampe), ricorda che quelle tre sorgenti erano “crassae, fumosae et cum aliquali tepore”.
La prima polla ha la caratteristica di essere calda, la seconda tiepida, la terza fredda. Sulle tre fontane, che a lungo conservarono le differenti temperature delle acque, furono erette tre edicole in ricordo del miracolo avvenuto. Le edicole sono a forma di nicchia con colonne di marmo nero di Chio, sovrastate dallo stemma della famiglia Aldobrandini e da un catino a conchiglia; su ognuna delle quali è scolpita la testa di S. Paolo. Per molto tempo l'acqua fu distribuita ai fedeli perché ritenuta miracolosa per varie malattie, ma nel 1950, a causa dell'inquinamento, il flusso venne chiuso.



Oggi è possibile ascoltare il fluire delle acque avvicinandosi alla base delle edicole e, nel silenzio della Chiesa, pensare alla moltitudine di fedeli che, nei secoli, hanno venerato questo luogo mistico e le tre polle d’acqua sorgiva.

Per concludere questo racconto, prima di uscire dalla chiesa, è necessario notare nell'angolo di destra, vicino alla prima edicola e protetta da una cancellata, la colonna di marmo bianco alla quale la tradizione vuole che S. Paolo sia stato legato per subire il martirio.


Forse degli accurati studi idrogeologici potrebbero spiegare in modo scientifico l’origine di queste tre piccole sorgenti; la Chiesa sorge sui depositi siltoso-sabbiosi e siltoso-argillosi delle piane alluvionali del Fiume Tevere, con alla base livelli ghiaioso-sabbiosi che possono ospitare una falda in pressione (SFTba nel foglio 374 Roma della Carta geologica d’Italia in scala 1:50.000). Nell’area, questi depositi quaternari sono in contatto laterale con l’unità medio pleistocenica della Formazione di Valle Giulia (VGI: ghiaie, sabbie e limi, con travertini fitoclastici alla sommità), oltre che con i depositi piroclastici costituiti dalle Pozzolane rosse (RED nella carta geologica), anch’esse di età Pleistocene medio p.p.

Stralcio del foglio 374 Roma
della Carta geologica geologica d'Italia
in scala 1:50.000

E' nostra opinione, tuttavia, mantenere un’aura di mistero sull'origine di queste acque. La leggenda sulla nascita delle sorgenti e le virtù terapeutiche assegnate alle acque, dovrebbero essere preservate dalle osservazioni scientifiche, che poco o nulla potrebbero aggiungere al profondo valore mistico del luogo.

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