giovedì 31 ottobre 2024

In memoria del Prof. Giovanni Charrier

di Gualtiero Accornero
Torino, 6 ottobre 2022

Un personaggio straordinario

Nel marzo del 2007, grazie ad Dott. Edoardo Martinetto (Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Torino) che mi ha fornito un estratto della rivista GEAM (da cui ho attinto sia per la foto che per diverse notizie), sono finalmente riuscito a sapere quando il professor Giovanni Charrier è mancato ed apprendere qualche notizia in più sulla sua vita.
Al Prof. Charrier (Torino, 1920 - Fabriano, 2000) infatti devo molto e mi sembrato giusto dedicare un breve scritto in memoria della sua persona che, dalla fine degli anni settanta, non ebbi più occasione di incontrare.
Ero già appassionato di paleontologia fin dal 1969, e nel 1974 grazie ad un personaggio straordinario, il Prof. Giovanni Charrier (laureato in Farmacia e in Scienze Naturali, libero docente di Paleobotanica) docente di Geologia presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, la mia passione ebbe una seria svolta "scientifica".
Al professore parlò di me e della mia passione per i fossili un suo allievo, mio caro amico, e subito il professore volle conoscermi e così mi fu presentato.
Probabilmente il professor Charrier vedeva in me un giovane mosso da una grande passione per questa materia e gli ricordavo la sua gioventù: mi aveva addirittura messo a disposizione il suo studio nel Politecnico di Torino per consultare testi e pubblicazioni di paleontologia sotto la sua guida. Mi consigliò anche di iscrivermi alla facoltà di Sienze Naturali, cosa che feci, ed alla SPI (Società Paleontologica Italiana) a cui sono associato fin dal dal 1975.
Il sabato mattina spesso mi recavo in quella stanza delle meraviglie piena di cassettini zeppi di fossili, vetrini campioni, ecc. C'erano anche molte pubblicazioni, che usavo per classificare i campioni che raccoglievo nelle uscite su terreno. Avevo chiesto infatti chiarimenti riguardanti fossili rinvenuti nei dintorni di Asti. Come tutti gli appassionati di paleontologia piemontesi di quel tempo, anche il sottoscritto iniziò ad appassionarsi alla materia classificando bivalvi e gasteropodi fossili con l'aiuto dei volumi dell'opera chiamata brevemente il "Bellardi-Sacco" che mi venne messa gentilmente a disposizione.
Il Prof. Charrier, personaggio d'altri tempi, allora già verso la pensione, mi raccontò che durante l'ultima guerra era solito aggirarsi sulle pendici del piccolo colle torinese del Monte dei Cappuccini alla ricerca di fossili.
Il Monte dei Cappuccini che si trova lungo la riva destra del Po, è un'amena località cara a tutti i torinesi, sede dell'omonimo convento e chiesa (consacrata il 22 ottobre 1656) al cui fianco sorge oggi anche il Museo della Montagna, ma era anche conosciuta dai paleontologi quale località fossilifera del Miocene. Il giacimento (ormai scomparso) è noto fin dalla metà del Seicento, infatti durante la costruzione del convento, la storia ricorda che i frati scavando le fondamenta rinvennero moltissime conchiglie fossili.
La cosa si ripeté durante la Seconda Guerra Mondiale: i soltati che stavano scavando le gallerie di un vasto rifugio antiaereo nel corpo collinare, estraevano infatti numerosi fossili. Il giovane Charrier, già allora appassionato di paleontologia, scambiava i reperti che i militari trovavano con delle ambite sigarette. I fossili più difficili da ottenere erano dei grossi denti di squalo, probabilmente Otodus (Carcharodon) megalodon, che i militari infilavano nella retina dell'elmetto quale fiero ornamento.
 
Il Monte dei Cappuccini - Da un particolare del quadro Veduta di Villa della Regina e della Real Chiesa dei Cappuccini del pittore Angelo Antonio Cignaroli (Torino 1767 - 1841) - olio su tela, cm 49,5x69,3.

Malacofauna fossile del Monte dei Cappuccini - Due esemplari di bivalvi del genere Glycymeris raccolti nel sito miocenico ormai scomparso del Monte dei Cappuccini e pertanto diventati rari. Gli esemplari, con altri provenienti da questo sito storico delle collina torinese, sono esposti nella collezione paleontologica del Museo di Storia Naturale Don Bosco del Liceo Valsalice di Torino.

La cosa forse più interessante è che il professore mi raccontava dell'illustre geologo piemontese Federico Sacco, che conobbe di persona, dicendo che spesso si recava nell'astigiano da solo in treno, poi in carrozza, e si aggirava tra le colline con lo zaino in spalla e martelletto alla ricerca di fossili. Quando il 2 ottobre 1948 all'età di 84 anni Federico Sacco mancò, Charrier aveva 28 anni, quindi era stato probabilmente suo professore durante i corsi universitari.
Per me, giovane appassionato di paleontologia, quel personaggio divenne allora un mito ed un esempio: influenzò decisamente il mio approccio scientificamente corretto verso la Paleontologia.



In alto: il professor Federico Sacco (Fossano 1864 - Trofarello 1948),
in basso il professor Giovanni Charrier (Torino, 1920 - Fabriano, 2000).

Ricordo di uno studente.

L'Ing. Umberto Bozino, già allievo del Prof. Charrier, leggendo il pesente articolo che avevo inizialmente pubblicato nel mio sito Internet, nell'aprile del 2009 mi inviò una email interessante che riporto di seguito per intero ringraziandolo ancora per il contributo.

Con sorpresa e molto piacere ho potuto avere notizie del professor Charrier mio docente di Paleontologia, per lo studio dei fossili guida ,al Politecnuco di Torino, anno 1954. Ricordo ancora le sue lezioni che ci avvincevano per la semplicità e chiarezza con le quali ci conduceva nel mondo affascinante e complesso della Paleontologia, della quale si poteva capire, aveva una conoscenza profonda e cosi pure per le scienze geologiche e dei giacimenti minerari.
Anche i Suoi colleghi del dipartimento di Mineraria avevano per Lui un profondo rispetto .Nelle dispute accademiche su problemi di classificazione di situazioni geologiche complesse ,nel corso di viaggi e visite di studio promosse dal Politecnico, i nostri Professori affidavano sempre a Lui, uomo di rara modestia, l'ultima parola, sempre risolutiva.
Ricordo anche la sua partecipazione a fine lezione a nostre domande su argomenti connessi alla sua materia. Parlando di evoluzione delle specie, che nel suo laboratorio con la raccolta di migliaia di specie di microfossili, e per ognuna con più eseplari morfologicamente attestanti la propria evoluzione,era semplicemente parlante, si venne un giorno alla domanda cruciale: come si origina una specie?
La risposta di Charrier la ricordo ancora ora: "nei miei studi ed in quelli oggi a me noti di altri accademici paleontologhi, non vi è alcuna evidenza scientifica che una nuova specie sia nata dal processo evolutivo di una specie preesistente, per noi studiosi è ancora un mistero".
Pochi mesi addietro, ho assistito ad una conferenza tenuta dal Prof. Oddifredi sul suo ultimo libro su Darwin. Al termine della conferenza ho preso la parola, per chiedere se quanto avevo appreso dal Prof. Charrier sull'origine delle specie, fosse ormai superato e risolto, chiedendo indicazioni su eventuali pubblicazioni di sua conoscenza, in merito alla questione
Dalla risposta completamente evasiva ho avuto la conferma che sull'argomento siamo ancora non lontani da quanto ci aveva detto il nostro Prof. Giovanni Charrier.

Umberto Bozino

Un articolo quasi profetico

La rivista GEAM (Associazione Georisorse e Ambiente) al tempo ne pubblicò il necrologio a cui ho attinto sia per la foto che per le diverse notizie sulla produzione scientifica del professore che seguono. Ho deciso di riportare letteralmente tale testimonianza che fu usata per introdurre anche il suo ultimo lungo, ma bellissimo articolo, mai pubblicato, dal titolo Riflessioni sulla Terra del passato del presente e dell'avvenire. La rivista GEAM scriveva quanto segue.

La recente scomparsa del Prof. Giovanni Charrier (Torino, 1920 - Fabriano, 2000) ha suscitato emozione e rimpianto in quanti, amici, studiosi ed allievi, ebbero modo di frequentarlo e di apprezzarne le peculiari doti sul piano umano, scientifico e didattico.
Intensa ed esemplare in tutto l'arco della carriera (dal 1949 al 1981), ed anche oltre, fu la sua attività di studio e di ricerca, documentata da tre libri di testo e da un'ottantina di pubblicazioni, che ne evidenziano la pluralità di interessi scientifici, la vasta cultura e la solida preparazione tecnica: da ricordare particolarmente l'alto grado di specializzazione nell'analisi di pollini e spore fossili e nell'interpretazione delle loro sequenze stratigrafiche.
Dei cospicui risultati di così ragguardevole operosità Egli sapeva ben avvalersi, riversandoli, vivificati dalla naturale inclinazione per gli aspetti speculativi della scienza, nell'insegnamento della Geologia, non esitando talvolta a sconfinare dai limiti programmati di un corso di tipo istituzionale per avventurarsi e coinvolgere i fortunati (a suo dire pazienti) allievi nel campo avvincente, a tratti profetico, della filosofia naturale.
A quei trascorsi ormai lontani, ma ancora vivi nel ricordo di molti, sono ispirate queste "Riflessioni" a sfondo escatologico sull'evoluzione del nostro pianeta, ultimo lavoro del Prof. Charrier compiutamente redatto per la pubblicazione: come tali rappresentano per noi un lascito aggiuntivo di dottrina e di pensieri maturati nel volgere di un'esistenza singolare, estranea ai clamori accademici, trascorsa nel raccoglimento dello studio e nel silente adempimento del dovere.

Anche se attualmente il testo di quello scritto, dopo più di venti anni, per alcune notizie, risulta scientificamente forse un poco obsoleto, si tratta in effetti di un articolo che direi molto attuale, e addirittura quasi profetico per i suoi contenuti in riferimento ai tempi odierni.
Grazie anche all'interessamento del Dott. Barale (CNR, Istituto di Geoscienze e Georisorse di Torino) ho rintracciato il cartaceo completo del pezzo (si trattava di fotocopie) l'ho riscritto emanuensemente ed integralmente e l'ho inserito al fondo di queste pagine. Penso che valga la pena di leggerlo attentamente. Qui la storia del nostro pianeta viene riassunta con l'occhio dello scienziato adottando una sintesi -che, secondo me è geniale, e fa comprendere quanto la nostra Terra sia unica e preziosa.

Notizie sulla produzione scientifica del Prof. Charrier

I principali campi di ricerca ai quali il Prof. Giovanni Charrier (laureato in Farmacia e in Scienze naturali, libero docente in Paleobotanica) si è dedicato sono stati i seguenti.
Geobotanica - Tra il 1947 e il 1951 ha compiuto il rilevamento floristico della Val Sangone e del Bacino del Chisola (Piemonte), finalizzato alla rappresentazione cartografica ed all'interpretazione fìtogeografica dell'assetto vegetazionale di quelle vallate. Altri studi di carattere geobotanico riguardano la distribuzione di alcune specie di piante vascolari in Sardegna.

Rilevamento geologico - Nel corso di impegnative campagne, dal 1952 al 1961, ha rilevato settori dei quadranti HI e IV del Foglio 181 (Tempio Pausania) e I, II e IV del Foglio 207(Nuoro) della carta geologica della Sardegna. Alcune note illustrano le caratteristiche geologiche del territorio esplorato.

Paleontologia e stratigrafia - In numerose pubblicazioni, corredate da una ricca documentazione iconografica, sono consegnati originali contributi alla conoscenza della flora fossile (in particolare legni silicizzati) di alcune regioni italiane, della formazione oligocenica di Pianfolco nell'Appenino Ligure della fauna pliocenica di Lessona nel Biellese, della malacofauna di arenali a clima caldo del Tirreniano nel Golfo di Oroseì (Sardegna).

Climatologia - Una copiosa serie di lavori di largo respiro, basati studio di reperti paleofloristici (particolarmente da depositi torbosi e lacustri) e paleofaunistici, integrato dal ricorso ai moderni metodi di datazione, ha recato nuove e risolutive conoscenze sull'evoluzione del clima e dell'ambiente durante il Quaternario nel settore delle Alpi occidentali italiane.

Segnalo infine i libri di testo (pubblicati dalla Libreria Editrice Universitaria Levrotto e Bella di Torino) di cui il Prof. Charrier è stato autore.
  • Lezioni di Paleontologia vegetale ed animale (1° ed.), 1953;
  • Paleontologia (2° ed. di Lezioni di Paleontologia vegetale ed animale), 1973;
  • Fondamenti moderni delle scienze geologiche, 1962;
  • Geologia - Introduzione allo studio delle scienze della Terra, 1978.
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Riflessioni sulla Terra del passato, del presente e dell'avvenire

(ultimo articolo mai pubblicato del Prof. Giovanni Charrier)


1 - La Terra nel passato

La storia terrestre ci conduce a esaminare le vicende di un singolare pianeta di natura rocciosa, che si individuò durante lo sviluppo del Sistema Solare iniziatosi 4.600 MA (MA sta per un milione di anni) or sono, per effetto dell'esplosione catastrofica di una "super-nova".
L'origine del cosmo fu un evento molto più antico che cominciò con la dilatazione di un grumo di materia super concentrata nello spazio secondo la teoria del big bang e dell'universo in espansione, tesi osannata, criticata e oggi rivalutata anche per la scoperta di documenti dell'evento primordiale (neutrini fossili).
Da una nube interstellare di polveri e gas, residuo della supernova, si formò quella piccola stella di seconda generazione che è il Sole, con il suo corteggio di oggetti planetari e dei loro satelliti, che si sono andati costruendo a poco a poco. Pianeti sin dall'origine distinti in due classi: terrestri (Mercurio, Venere, Terra e Marte) più vicini al Sole, ad elevata densità, poveri di elementi leggeri perduti per effetto termico e formati essenzialmente da materiale roccioso, e giovani (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), più lontani dal Sole e con densità e composizione simile a quella del Sole. Ma solo la Terra si trovava nella posizione più adatta rispetto al Sole, non troppo vicina e non troppo lontana, per proseguire il prestigioso cammino che l'ha condotta attraverso molte vicende e trasformazioni, fino alla condizione attuale.
Un oggetto planetario di tipo terrestre si forma per progressiva agglomerazione di polveri, di particelle e di frammenti sempre maggiori (planetesimali) in moto accelerato verso l'interno, sotto la guida del campo gravitazionale, che si sta creando. L'energia cinetica viene convertita in calore determinando la fusione dei materiali interessati da questo processo.
Al centro del corpo planetario si portano le frazioni più pesanti, che daranno vita al nucleo metallico del pianeta mentre i materiali silicei galleggiano originando il mantello.
Il nucleo metallico ha la possibilità. di mantenersi totalmente o parzialmente in stato di fusione e con i suoi movimenti dà vita a un campo magnetico (magnetosfera), che subisce periodiche inversioni di polarità facendo variare la funzione di schermo sui convogli energetici provenienti dallo spazio. In piccoli corpi planetari come nel caso della Luna o di Marte può mancare il nucleo metallico, così che essi risultano totalmente rocciosi.
Per quanto si riferisce alla Terra va sottolineato che il calore originario proveniente dalla conversione dell'energia cinetica si sarebbe disperso forse in soli centomila anni, se non fosse esistita all'interno una fonte di calore legata al processo di decadimento dei nuclei degli elementi radioattivi, che compensa largamente la perdita del calore originario. Quando il nostro pianeta si fu alfine individuato, ebbe inizio la storia geologica che ha condotto la Terra ad assumere le caratteristiche attuali, attraverso continue trasformazioni nel corso di una durata di oltre tre miliardi di anni, per effetto di fenomeni decorrenti all'interno o alla superficie. Sono i fenomeni geologici, che sembrano raggrupparsi in una serie di cicli (cicli tettonici, magmatici, sedimentari, ecc.), anche se nulla si è ripetuto esattamente e la Terra ha sempre dimostrato una spiccata capacità di trasformazione.
La ciclicità indica solo il riproporsi di episodi che hanno delle analogie con quelli che li precedono o che li seguono ma che non si riproducono allo stesso modo. Tali cicli costituiscono spezzoni utilizzabili come modelli ritagliati nel flusso incessante e irreversibile della storia della Terra.
Oggi si tende a sottolineare che la fenomenologia geologica non esclude affatto il catastrofismo caro a quel sommo naturalista che fu Giorgio Cuvier (teoria delle catastrofi e delle creazioni successive) in contrasto con l'attualismo del Lyell. I fenomeni geologici sono per loro natura di estrema complessità.
Operano vistose modificazioni degli assetti preesistenti, in tempi lunghi, a meno che non si tratti di eventi catastrofici, e coinvolgono grandi masse di materiali. Per tali ragioni non sono riproducibili in laboratorio. Tra i fattori in gioco ricordo l'apporto energetico del Sole entro certi limiti variabile, il calore interno legato alla presenza di elementi radioattivi in corso di decadimento, che è responsabile della tettonica e del magmatismo, il bombardamento meteoritico, che fu intensissimo alle origini ma che continuò durante tutta la storia geologica , causa prima di eventi catastrofici di grande rilevanza come sarà in seguito precisato.
La Terra delle origini fu lontana dalla condizione attuale. Per effetto del surriscaldamento, che disperdeva gli elementi leggeri volatili, solo in un secondo tempo poté conservare un'atmosfera e accogliere un'idrosfera. L'acqua attraverso interminabili diluvi si raccolse nei crateri originati dalla collisione con oggetti meteoritici, ma acqua e aria erano prive di ossigeno libero e contenevano larga messe di composti dell'idrogeno, dell'azoto, del carbonio e dello zolfo, un chimismo che favoriva la sintesi di molecole complesse, che sono distrutte dall'ossigeno.
Ma uno sguardo va rivolto anzitutto alla condizione della crosta, che si stava modernizzando per effetto della tettonica e dell'attività magmatica. A partire dai materiali fusi risalenti dal mantello distinto in una regione profonda, rigida, la sclerosfera, seguita da un involucro quasi fluido, l'astenosfera, si originò per cristallizzazione la crosta terrestre o litosfera.
Dai convogli differenziati in senso acido derivarono per intrusione, la più nobile delle rocce, il granito, o le pegmatiti filoniane, e per effusione gli espandimenti lavici, che consolidarono come coperture del tipo dei porfidi quarziferi, mentre dalle masse fuse di silicati ferro-magnesiaci si formarono le rocce di natura peridotitica. Si manifestò fin dalle origini un netto dualismo nella litogenesi magmatica tra Sial costituente della crosta continentale e Sima legato alla crosta oceanica.
Da tempi remoti la crosta principiò a frantumarsi e così si originarono le placche crostali in movimento di allontanamento tra di loro con la conseguente formazione di oceani interposti a fondo simatico, o di scontro con la formazione di catene di montagne (orogenesi).
Su questa Terra primordiale comparvero precocemente i precursori della vita, che invece tardò a lungo a manifestarsi in forme primitive, ma già riconoscibili allo stato fossile. Nelle lagune fangose sature di idrocarburi si immagina che la vita si sia iniziata 3.800 MA orsono attraverso la formazione di aminoacidi, che finirono per strutturarsi in catene del DNA (acido desossiribonucleico), grosse molecole capaci di riproduzione e di programmazione.
Qualcuno ha supposto persino un intervento di extraterrestri. Ma la cosa ha solo sapore fantascientifico. Di recente su Titano, satellite di Saturno, sono state scoperte molecole primordiali della vita.
Le rocce metamorfiche della serie di lsua (scudo groenlandese) vecchie di 3.800 MA hanno rivelato la presenza di carbonio con valori della composizione isotopica tali da far ritenere un legame con attività esplicate da organismi o almeno da precursori macromolecolari della vita organica in senso stretto.
Ma la prima più sicura segnalazione della vita ci giunge dallo scudo australiano ed è offerta da rocce del tipo delle "stromatoliti", datate a circa 3.500 MA che affiorano a Warrawoona presso le miniere abbandonate di North Pole. Il significato delle stromatoliti è stato svelato dalle scoperte della biologa americana Lynn Margulis effettuate nelle lagune salate della Baja California (Messico), dove i batteri in quell'ambiente non accessibile alle piante superiori e agli animali edificano nella fanghiglia strutture a forma di una focaccia fogliettata simili a quei reperti, che ricorrono in rocce arcaiche in varie parti del mondo e che sono indicate nella letteratura geologica con il termine stromatolite.
A North Pole sono stati di recente individuati anche batteri fossili in colonie filamentose, la cui età corrisponde a quelle delle stromatoliti (3.500 MA). Ma occorre giungere fino alla data di circa 2.500 MA or sono per ritrovare batteri e alghe azzurre ben diversificate, tuttavia ancora con cellule procariote (Flora di Guntflint, Ontario, Canada) e a un miliardo di anni dal presente per scoprire gli eucarioti (alghe verdi) con nucleo cellulare di stile moderno (Flora di Bitter Springs, Australia centrale).
Solo a circa 600 MA fanno la loro comparsa animali marini come meduse, vermi, spugne, corallari e artropodi primitivi (Fauna di Ediacara, Adelaide, Australia). Si trapassa così dall'Eone criptozoico, o della vita nascosta, all'Eone Fanerozoico, o della vita manifesta, la biosfera, in pieno sviluppo e in costante progresso attraverso molti milioni di anni, fino a raggiungere il traguardo dell'ominazione, della presa di coscienza sul mondo.
Alcuni cosmologi tenuto conto dei valori di certe grandezze come la massa delle particelle elementari, la costante di Plank e la velocità della luce, hanno proposto il principio antropico, secondo il quale fin dal suo inizio il cosmo sarebbe stato studiato nei minimi particolari con il preciso intento di giungere attraverso la Terra e la vita fino all'uomo (universo geocentrico e antropocentrico).
Mentre la geologia del profondo continuava il suo corso condizionando la frantumazione della crosta e i movimenti delle placche di allontanamento tra di loro o di avvicinamento e di scontro e quindi gli atti della tettonica e del magmatismo, la geologia di superficie con le operazioni di erosione e di litogenesi sedimentare era in gran parte dipendente dalla presenza della vita organica, che a partire dal Cambriano, lasciati i bacini marini dove era nata, invase a poco a poco le terre emerse, producendo sostanziali trasformazioni.
Va sottolineato che i vegetali hanno svolto un ruolo di primo piano per rendere abitabile la Terra. Da principio pullularono nelle acque come alghe, che liberavano ossigeno nel corso del processo di fotosintesi clorofilliana e contribuivano a fissare il C02 nei calcari, sottraendolo all'atmosfera, che si salvava così gradualmente dall'effetto serra responsabile di un surriscaldamento dell'ambiente superficiale .
Le piante emersero per prime dal mare passando dallo stadio di tallofite evolute del tipo delle alghe brune a quello di cormofite ancestrali, forse già alla fine del Cambriano. Le piccole psilofitali (Rhynia, Psilophyton) del Devoniano, radicate al suolo nelle paludi con i fusti eretti privi di foglie protesi a catturare avidamente l'anidride carbonica nell'aria, attraverso i loro primitivi stomi, rappresentano il prototipo di pianta superiore terrestre.
Nella seconda metà dell'Era paleozoica, la linea di progresso del mondo vegetale si espresse sui continenti, da prima limitatamente alle aree di impaludamento, con una ricca esibizione di forme arboree munite di foglie: licopodiali (Lepidodendron, Sigillaria), articolate (Calamites), felci, pteridosperme e si lanciò poi alla conquista di ambienti meno umidi con le splendide paleoconifere (Lebachiacee), un poco simili alle nostre araucarie.
Risultano sin da allora acquisiti quegli organi prestigiosi che sono la foglia, la spora, il polline e il seme. Nel Carbonifero estese foreste di licopodi arborei, di equiseti arborei e di pteridosperme fornirono un ricco apporto di ossigeno libero all'atmosfera e poté anche abbozzarsi l'ozonosfera, che fa da schermo alle radiazioni solari più penetranti e nocive. I resti di queste foreste accumulatisi in grandi masse li ritroviamo nei giacimenti di carbon fossile.
La fauna, sviluppatissima in ambiente marino o lagunare, forse perché l'acqua forniva una valida protezione, tardò un poco invece a conquistare le terre emerse.
Un artropode simile agli scorpioni lasciò la sua impronta in rocce del Siluriano superiore e nelle "vecchie arenarie rosse" del Devoniano della Groenlandia compaiono i primi fossili di vertebrati, di anfibi labirintodonti che nel Carbonifero e nel Permiano raggiunsero la massima diffusione per poi presto decadere inchinandosi al dominio dei rettili, che emancipatisi dalle acque anche per la riproduzione e lo sviluppo giovanile, a partire dal Triassico diventarono i dominatori incontrastati del pianeta.
Ma deve essere qui ricordato che alla fine del Paleozoico la Terra andò incontro ad eventi di carattere catastrofico, e non era certo la prima volta che la cosa accadesse, anche se le cause di questi fatti rimangono pur sempre misteriose.
Le placche crostali a quel tempo si erano riavvicinate fino a costituire un unico super continente (Pangea), circondato da un oceano mondiale. Ci furono degli intensi contrasti climatici che culminarono con una estesa e prolungata glaciazione, una delle numerose grandi età glaciali che interessarono periodicamente il nostro pianeta a partire dall'Arcaico.
Seguirono ripetute crisi di aridità. Un gran numero di specie animali e vegetali dovette soccombere e scomparire sia in mare che sulle terre emerse, facilitando la comparsa e l'espansione di nuovi tipi in armonia con le mutate condizioni.
Il fenomeno dell'estinzione delle specie è continuato attraverso la storia geologica tanto che si può parlare di una vita della specie quasi come avviene per la vita di un individuo, e sono le specie a breve vita (tachiteliche) quelle che con i loro fossili hanno permesso di suddividere le formazioni sedimentarie in un gran numero di zone paleontologiche (con trilobiti, ammoniti, rudiste, foraminiferi, ecc.). Ma tutt'altra cosa è la. rapida scomparsa di intere faune e flore, che sottintende il verificarsi di qualche avvenimento catastrofico del tipo del diluvio universale, della distruzione di Sodoma di biblica memoria o delle famose catastrofi ipotizzate dal Cuvier e contraddette dal Lyell.
Sono state invocate come cause possibili di queste vicende disastrose rapidi mutamenti del clima (ma anche questi richiedono delle spiegazioni) o intense manifestazioni vulcaniche specie di tipo ignimbritico o la collisione della Terra con corpi meteoritici del tipo degli oggetti Apollo con nuclei o frammenti di comete.
Un evento di questo tipo si verificò il 30 giugno 1908 a Tugunska in Siberia. L'esplosione liberò una quantità di energia pari a quella che si sarebbe sviluppata da 700 bombe atomiche del tipo lanciato su Hiroshima (Kenneth J. H., 1993).
Collisioni con corpi meteoritici o comete devono essere avvenute con relativa frequenza nel corso della storia geologica e si sono di recente individuati crateri di natura non vulcanica, documento di·questi temibili scontri. Sulla Terra il rimaneggiamento operato dall'erosione può avere cancellato molti antichi crateri, e lo scontro in certi casi interessò aree oceaniche.
La superficie lunare, che non ha subito intensi rimaneggiamenti è fittamente ricoperta dalle tracce di crateri meteoritici.
Si è discusso molto sulle traumatiche vicende che hanno condotto tra Cretaceo e Terziario a radicali mutamenti nella composizione faunistica e florstica del nostro pianeta.
Oggi i dinosauri sono diventati di moda. Dalla paleontologia sono passati nel dominio dei romanzi di fantascienza e del cinema.
65 MA or sono non scomparvero solo i dinosauri ma anche le ammoniti, regine dei mari del Mesozoico, le rudiste, le belemniti, e un gran .numero di specie di animali e di piante, tanto che oltre quella data si manifestò quasi una nuova creazione: i continenti furono ricoperti da foreste di conifere di tipo moderno, le angiosperme offrirono i loro stupendi fiori, nei cieli volarono·uccelli e farfalle e i mammiferi iniziarono il cammino di gloria, che culminò con la comparsa degli ominidi.
L'atmosfera si arricchiva gradualmente di ossigeno libero, l'ozonosfera si) irrobustiva così che gli ambienti terrestri si rendevano adatti allo sviluppo di forme più avanzate di viventi.
Nei pressi di Gubbio (Umbria) uno straterello che segna il passaggio dal Cretaceo al Terziario a formazione di argille, ha mostrato una composizione chimica singolare rispetto a quella dei comuni sedimenti oceanici, perché è molto più ricco di iridio, platino e osmio e sembra avvicinarsi alla composizione dei materiali meteoritiche contengono questi elementi in tenori elevati.
Oggi quel prezioso livello stratigrafico è considerato un testimone della catastrofe che portò alla scomparsa improvvisa dei dinosauri e di una parte rilevante della fauna e dalla flora di quel tempo, aprendo la strada a un profondo rinnovamento della vita sulla Terra. Si ritiene infatti che l'esile strato ricco in iridio derivi dal disfacimento dell'oggetto meteoritico, che avrebbe colpito la Terra 65 MA or sono causando la catastrofe. Livelli di quel tipo ricchi in elementi del gruppo dell'iridio si sono ritrovati altrove come nel Montana entro serie stratigrafiche di passaggio dal Cretaceo al Terziario.
A partire dall'inizio del Terziario la situazione stava mutando dal punto di vista della geografia, della tettonica e del clima. L'epoca del clima pantropicale esteso a gran parte delle terre emerse, che aveva favorito l'incontrastato dominio dei rettili volgeva al tramonto. I continenti tendevano a separarsi e a migrare e tra loro si individuavano nuovi bacini oceanici, alcuni dei quali per il gioco di scontro tra le placche crostali venivano soppressi e sostituiti dalle giovani catene di montagne del ciclo orogenetico alpino. Un continente (l'Antartide) si spostava verso il polo Sud e fu ricoperto precocemente dal ghiaccio, segnale profetico della grande età glaciale pliocenico-quaternaria tuttora in corso di svolgimento (Frakes L. A.,1 1979).
Non è possibile in questa sede analizzare i processi di speciazione che hanno condotto flora e fauna a raggiungere il loro assetto attuale. Basti citare alcuni fattori in gioco come il ruolo esercitato dagli altipiani tropicali nel favorire le mutazioni cromosomiche in animali e piante, specie nel corso della inversione del campo geomagnetico principale, e le variazioni del clima (crisi glaciali o di aridità), che inducono vasti processi di migrazione per la ricerca di oasi di rifugio. Io ho sostenuto la teoria degli altipiani tropicali anche per quanto si riferisce alla comparsa di ceppi primitivi di ominidi geneticamente legati al phylum delle australopitecine . Secondo il Prof. Chiarelli il processo di ominazione potrebbe essere stato repentino, tale da non coinvolgere più di due generazioni. L'alta quota, la posizione degli altipiani in condizione di clima intertropicale, la diminuzione dell'intensità del campo geomagnetico durante un'inversione della polarità, avrebbero favorito il decorrere delle mutazioni nei corredi cromosomici (Messeri P., Dessì F., 1982).
A metà del Pliocene apparve Homo abilis con la sua preziosa "pebble culture" o cultura del ciottolo scheggiato, seguito da Homo erectus e più tardi da Homo sapiens neanderthalensis.
L'uomo moderno (Homo sapiens sapiens) fu invece figlio della Fase glaciale di Wurm, in un interstadio della quale noi viviamo.
Eventi di carattere catastrofico o quasi hanno interessato la storia recente della Terra. Anzitutto nel Messiniano una straordinaria crisi di aridità disseccò il Mediterraneo dando luogo alla sedimentazione di ingenti masse saline: gesso e salgemma.
A metà del Pliocene iniziò il suo cammino la grande età glaciale pleistocenico-quaternaria, caratterizzata dall'alternarsi di fasi glaciali, che favorivano l'espandersi delle coperture di ghiaccio sulle terre emerse: Donau, Gunz, Mindel, Riss e Wurm intervallate da periodi a clima mite, gli interglaciali (Hoyle F., 1982).
Circa 90.000 anni or sono, come suppone Hoyle e altri ritengono probabile, dall'interglaciale Riss-Wurm si trapassò quasi di colpo, nel giro di poche decine di anni, al primo stadio della fase glaciale di Wurm, forse sotto gli effetti di un evento catastrofico (collisione con un oggetto Apollo?).
Si data a 16.000 anni dal presente l'ultimo e più freddo stadio del Wurm (W 4), che presto lasciò spazio a un intenso raddolcimento del clima, che condusse nell'Olocene, durante i millenni dell'Ottimo climatico postglaciale o ipsoterrnico, alla fusione di molta parte dei ghiacci continentali e a un vistoso innalzamento del livello medio dei mari.
Negli ultimi millenni ci fu un ritorno al freddo (Neo-glaciale) e questi mutamenti di clima influirono sulla fauna, sulla flora e sulle popolazioni umane, sollecitando effetti di migrazione verso contrade più miti e ospitali (Carpenter R., 1969).
Il Sahara prima di trasformarsi in deserto (esempio di un recente processo di estesa desertificazione) fu ricoperto da praterie e foreste e ospitò gli uomini del Mesolitico terminale e del Neolitico, che lasciarono in quei luoghi larga messe dei loro manufatti litici (lamine, coltelli, punte di freccia, punte di lancia, raschiatoi ecc.). Da allora la storia della Terra e del variare dei suoi climi si fuse ormai con la storia umana, come negli ultimi due secoli che videro Napoleone e Hitler sconfitti dal "generale inverno".

2 - La Terra nella difficile situazione presente
La biosfera, cioè il mondo delle piante e degli animali, fin dalle origini ha esercitato sugli ambienti terrestri una grande influenza, realizzando condizioni di relativo equilibrio, che permettevano il proseguimento della vita e il suo progresso.
Intense manifestazioni vulcaniche, stadi di deterioramento climatico, collisioni con oggetti meteoritici, la competizione con nuove specie aggressive, potevano mettere a rischio l'esistenza di larga parte della fauna e della flora in alcuni momenti drammatici della storia geologica. Ma non era mai successo che una specie giungesse a manipolare la natura, anzi a deteriorarla, come progressivamente è capitato dopo la comparsa degli ominidi, e specie del tipo più moderno del genere Homo, appunto H. sapiens sapiens.
A partire dalla "rivoluzione del Neolitico", allorché l'uomo, immerso nella natura primordiale, raccoglitore e cacciatore, ne uscì per diventare agricoltore e pastore, gli ambienti terrestri furono assoggettati a una crescente aggressione da parte delle popolazioni umane, che svilupparono le loro attività, specie se in contrasto o addirittura in guerra tra di loro. Perché la guerra sottintende sempre opere di distruzione: di vite umane, di città, di villaggi, di foreste.
Purtroppo gli uomini hanno spesso privilegiato le scoperte di armi sempre più sofisticate e micidiali. Così ci ritroviamo a considerare la situazione della Terra attuale, dove l'uomo ha raggiunto in campo scientifico e tecnologico livelli quasi inimmaginabili, ma forse non ha ancora raggiunto il giusto equilibrio morale per gestire le sue scoperte senza pericolo.
È quasi nella situazione di un bambino, che giocherellasse con temibili bombe.
Mi limiterò qui a ricordare alcuni aspetti di questa nostra realtà preoccupante, che è messa bene in evidenza nei testi del Worldwatch Instìtute (Brown L. R. et al., 1989; Brown L. R. et al., 1993), e sulla quale ha richiamato spesso l'attenzione il Club dì Roma.
L'effetto serra dovuto al progressivo aumento dì CO2 nell'aria, comincia a evidenziarsi, innescando processi locali di surriscaldamento e di desertificazione, con la conseguenza di ridurre la produzione cerealicola, come è avvenuto in questi ultimi anni negli U.S.A.
Nel periodo che va dal 1969 al 90 si calcola che l'ozono sia diminuito fino a oltre il 3% in corrispondenza dell'emisfero Nord del pianeta, per effetto della risalita nella stratosfera di composti a base di cloro e di bromo, liberati nel corso di processi industriali o emessi da alcuni prodotti oggi di largo consumo (come i gas delle bombolette spray). Ma l'impoverimento in ozono è molto più sviluppato nelle regioni polari (buco dell'ozono). Nelle aree industriali l'inquinamento dell'aria, delle acque continentali e marine e dei terreni, conseguente all'emissione di polveri e gas, è ormai generalizzato.
Occorre poi tener conto dei prodotti di scarico degli automezzi e anche degli aerei in continuo movimento, che riempiono lo spazio di sostanze estranee alla composizione originaria dell'atmosfera.
Nell'ultimo decennio la deforestazione ha raggiunto livelli preoccupanti. Per esempio in Brasile, nella regione amazzonica, sono stati distrutti otto milioni di ettari di foreste, un'estensione che eguaglia la superficie dell'Austria. Nelle calde estati continuano a bruciare i boschi. Si pensi a quanto succede in Italia e al rogo immane che ha colpito la zona di Sydney in Australia nel dicembre del 93, distruggendo un famoso parco nazionale.
Gravi danni alla vegetazione boschiva sono inoltre arrecati dalle piogge acide, come è stato messo in evidenza in Germania, dove si sono manifestate morie in massa degli alberi della Foresta Nera (la "waldsterben" o morte dei boschi). Le perdite conseguenti al deterioramento delle foreste europee per effetto degli inquinamenti atmosferici ammontano a oltre 30 miliardi di dollari l'anno. Inoltre la deforestazione per effetto del taglio indiscriminato degli alberi costa oltre 16 milioni di ettari di foresta tropicale all'anno.
La scoperta da parte dei fisici delle formidabili energie racchiuse nei nuclei degli atomi ha condotto alla fabbricazione di micidiali ordigni di guerra, che sono stati subito adoperati per distruggere due città del Giappone: Hiroshima e Nagasaki, e in seguito ha permesso di allestire i paurosi arsenali nucleari delle super potenze, capaci di annientare in teoria tutta la biosfera.
Nei paesi a maggior sviluppo sono pullulate poi le centrali nucleari per produrre energia elettrica, e la loro pericolosità è stata messa in evidenza dall'esplosione del reattore di Chernobyl in Ucraina, avvenuta nell'aprile del 1986. Centomila persone che vivevano in prossimità del reattore hanno dovuto abbandonare le loro case. Altri incidenti del genere anche se meno clamorosi sono capitati in questi anni, e molte centrali sono considerate oggi a rischio.
Per quanto si riferisce alla minaccia costituita dalla possibile messa in azione di armi nucleari il pericolo è forse aumentato dopo il miracolo dell'89, da quando si è rotto l'equilibrio est-ovest, da quando è stato abbattuto il muro di Berlino e l'Unione Sovietica è diventata Federazione Russa. Il progettato disinnesco di tali armi è un problema di difficile attuazione. Inoltre esse possono essere cedute a paesi minori senza controllo, e anche il commercio delle materie prime per fabbricarle costituisce un pericolo. Lo stesso si può ripetere a proposito delle armi chimiche e batteriche.
Purtroppo l'uomo è approdato sulla Luna e vorrebbe presto approdare su Marte ma non è ancora approdato sulla Terra intesa come un mondo di pace e di cooperazione tra i popoli, per poter realizzare un vero progresso.
Personalmente ho sempre pensato che il denaro speso per sviluppare le ricerche del cosmo e per fabbricare armi sempre più micidiali sia stato un grosso spreco economico, anche se ha condotto a importanti scoperte scientifiche. Capisco l'ansia dell'esplorazione, che in passato ha portato a scoprire nuovi continenti e che al di fuori della piccola Terra e del Sistema Solare potrebbe condurre alla conquista di nuovi ipotetici pianeti. Ma, ripeto, è meglio prima conquistare sul serio la Terra, renderla più sicura, più abitabile, salvarla da un pauroso degrado.
Si pensi al prezzo che si paga per stupende realizzazioni della tecnologia moderna. La guerra quotidiana sull'asfalto ha fatto forse più vittime di tutti i conflitti combattuti sui fronti di battaglia in questo secolo. Ricordo quando negli anni sessanta Padre Secondo Goria tuonava coraggiosamente dal pulpito della Chiesa dei Santi Martiri in Torino, dichiarando rei d'omicidio i dirigenti della FIAT e di tutte le grandi industrie automobilistiche. Diceva che non potevano essere giudicati dai tribunali della Terra, ma che sarebbero stati giudicati severamente dal tribunale di Dio. Lo so, questa affermazione ha tutto il carattere di un'utopia bella e buona. Le industrie dell'automobile e anche le industrie degli armamenti hanno fornito lavoro a milioni e milioni di persone, hanno permesso lo sviluppo di innumerevoli famiglie, anche se hanno contribuito alla morte di tante altre persone, fornendo i loro pericolosi gioielli. E' il triste dramma della società dei consumi.
Negli anni 60 i futurologi prevedevano una ottimistica fine di millennio. Immaginavano una società, dove tutti avrebbero lavorato poche ore al giorno.
Il solo vero problema sarebbe stato offerto dall'impiego del tanto tempo libero a disposizione, nel quale gli uomini del 2000 si sarebbero dedicati a coltivare interessi diversi di carattere culturale, sportivo, religioso. Oggi il tempo libero per molti è disponibile. Ma si tratta purtroppo del tempo libero dei disoccupati.
Tuttavia in questi ultimi anni le valutazioni per il futuro della Terra e degli uomini tendono a rammodernarsi. Il rapporto sul nostro pianeta del Worldwatch lnstitute, anno 1989, era improntato al più nero pessimismo. I rischi offerti dalle molteplici fonti di inquinamento, dalla crescita incontrollata della popolazione mondiale ("la bomba demografica"), la differenza economica apparentemente incolmabile tra le nazioni progredite e quelle del terzo mondo, sembrava far presagire un prossimo collasso della situazione.
All'inizio del 92, la National Academy degli Stati Uniti e la Royal Society di Londra hanno pubblicato un rapporto, che iniziava così: "Se le attuali previsioni di crescita della popolazione si dimostreranno accurate e se i modelli dì attività umana nel nostro pianeta resteranno inalterati è possibile che la scienza e la tecnologia non siano in grado di impedire il verificarsi di un degrado irreversibile dell'ambiente e il perpetuarsi di una condizione di povertà per la gran parte del mondo".
Ma dal rapporto del Worldwatch Institute del '93 (Brown L. C. et al., 1993) discendono note meno allarmanti, purché si corra tempestivamente ai ripari. Sono passati in rassegna i vari argomenti in riferimento al degrado ambientale e si suggeriscono i mezzi per far fronte alla situazione prima che essa possa uscire da ogni possibilità di controllo.
Anzitutto si mette in evidenza che l'attuale sistema economico è in corso di autodistruzione perché esso tende ad indebolire i sistemi ambientali. Perciò, come punto di partenza per una rinascita della Terra si lancia l'idea di usare l'economia per favorire la ricostruzione del patrimonio ambientale, un'economia da inventare che come tutte le conquiste costerà molti sacrifici (Garaguso G., Marchisio S., 1993).
Infatti si nota che la crescita indiscriminata verificatasi a partire dal l950 del 500% per l'economia con un incremento di popolazione da 2,6 a 5,5 miliardi di persone ha eroso la capacità di sostentamento dei sistemi biologici, destando ben giustificati timori. Ma si suggeriscono agli organi di governo e ai tecnici le misure che dovrebbero essere adottate per sanare le piaghe ambientali e per costruire un sistema eco­ ambientale sostenibile, che rispetti il più possibile l'integrità degli ecosistemi.
Si dovrà economizzare al massimo l'uso dell'energia ricorrendo per quanto è possibile a fonti naturali (energia idroelettrica, energia eolica, termiche a energia solare) mentre sono i combustibili fossili tradizionali (carbone e idrocarburi) e l'energia nucleare da fissione, mentre quella da fusione per ora non è disponibile.
Sarà dato largo spazio al trasporto su rotaia e tutti i mezzi di trasporto dovranno essere ecologicamente tollerabili. In ogni campo sarà necessario far largo uso del riciclaggio dei materiali e le risorse idriche dovranno essere valorizzate al massimo.
In quel rapporto sono analizzati i vari problemi in una serie di capitoli: fronteggiare la scarsità d'acqua, rivitalizzare le scogliere coralline, difendere i popoli indigeni, fornire energia ai paesi in via di sviluppo, prepararsi alla pace, riconciliare commercio e ambiente, plasmare la prossima rivoluzione industriale.
E' da augurare il massimo impegno allo scopo di realizzare la nuova rivoluzione industriale, che dovrebbe condurre al salvataggio della Terra dagli avvenimenti che la minacciano. L'uomo potrà raggiungere l'equilibrio morale necessario per approdare finalmente sulla Terra, per approdare sulla Terra prima che su Marte?

3 - La Terra in corsa verso il futuro

Anche se la sua condizione attuale è per seri motivi allarmanti, la Terra avanza nondimeno giorno dopo giorno verso il futuro.
Perché tutto a questo mondo è fugace, è immerso nel tessuto del "tempo precario " (Berdjaev N., 971) dove il presente non è che un fragile raccordo tra passato e futuro.
Il geologo che è per eccellenza lo studioso del passato della Terra, sulla base della conoscenza dei fenomeni geologici, è chiamato a far previsioni sulle vicende che attendono il nostro pianeta nel tempo a venire. Ma proprio a causa dell'effetto antropico, che interessa ormai ogni ambiente e che falsa le prospettive naturali, oggi riesce più difficile formulare previsioni.
Come ho scritto in recenti note (Charrier G., 1990; Charrier G., 1991), sulla base di riscontri paleoclimatici, che riguardano il Pleistocene recente e l'Olocene, ritengo che oggi ci troviamo a vivere in un interstadio della Fase glaciale di Wurm piuttosto che in un Interglaciale. Poiché gli interstadi hanno una durata media dell'ordine dei 10.000 anni o poco più, non si dovrebbe essere lontani dall'inizio di un nuovo glaciale.
Ma occorre tener conto di una serie di fattori, che agiscono nel senso di procurare anomalo riscaldamento come l'effetto serra, il deperimento della coltre di ozono, le immissioni di calore dovute alla frenetica attività industriale, così che le previsioni basate sulle vicende del passato possono risultare fallaci.
Il Centro climatologico di San Pietroburgo (Budyko M.I., 1982) prevede infatti per i prossimi secoli un innalzamento della temperatura media terrestre di alcuni gradi e conseguenti fenomeni di diffusa desertificazione e di trasgressione marina.
Molte città costiere sarebbero perciò in pericolo, e la produzione agricola subirebbe forti danneggiamenti. Ma lo stesso Budyko considera prevedibile l'avvio di un nuovo stadio glaciale, se non intervenisse pesantemente l'effetto antropico. Ritiene inoltre che lo stato di maggior equilibrio climatico sarebbe rappresentato dalla condizione "panglaciale": una Terra totalmente o quasi ricoperta dai ghiacci, condizione che finora non si è mai realizzata durante le numerose grandi età glaciali che il nostro pianeta ha subito ad intervalli nel corso della sua storia. Ha conosciuto invece una condizione "pantropicale" largamente estesa, durante il Mesozoico.
L'idea di una diffusa irreversibile glaciazione che in futuro coinvolgerebbe la Terra, decretandone la fine come pianeta abitabile, era comunemente accolta nel secolo scorso. Compare nel romanzo: "La fine del mondo" di Camillo Flammarion dal quale è stato tratto un famoso film negli anni trenta. L'idea è stata ripresa anche dal Carducci nella sua ode: "Tramonto a Monte Mario", dove scriveva: "...quando un'unica femina e un uomo, te vedan su l'immane ghiaccia, Sole, calare". L'ultima coppia di uomini rimasti sulla Terra che assistono desolati al tramonto del Sole tra i ghiacci. Flammarion li aveva battezzati Adamo ed Eva, ripetendo i nomi della coppia biblica iniziale.
Allora si era infatti convinti che il Sole dovesse presto esaurire la sua carica energetica e spegnersi. Oggi invece la conoscenza sulla vita delle stelle si è accresciuta. Il Sole dovrebbe ancora durare a splendere per miliardi di anni e prima di morire potrebbe esplodere ingoiando alcuni pianeti, compresa la Terra.
Ma si tratta di tempi troppo lontani che sfuggono dal dominio della Geologia e dalla relazione tra l'uomo e la Terra.
Perché se la Terra, più o meno abitabile, è destinata a durare per un periodo quasi illimitato, si può pensare invece che l'uomo non durerà a lungo come la Terra.
Nei romanzi di fantascienza si sono prospettati molti scenari fiabeschi come l'invasione della Terra da parte di alieni ostili o fantastici viaggi dell'uomo su astronavi viaggianti alla velocità della luce oltre il Sistema Solare, alla scoperta di pianeti nella Galassia della Via Lattea o in più lontane galassie.
Ma i paleontologi, studiosi della storia della vita, lanciano i loro allarmi. L'uomo moderno (Homo sapiens sapiens) ha tutti i caratteri di una specie tachitelica, votata a una rapida estinzione. Nel Quaternario recente specie largamente diffuse come il cervo gigante del Glaciale, il mammut o l'uomo di Neanderthal sono quasi improvvisamente scomparse. E' poco credibile che l'uomo moderno abbia sterminato con la caccia spietata i mammut o abbia commesso un genocidio sopprimendo i neandertaliani.
Queste specie legate a certe condizioni di ambiente, esaurita per così dire la loro carica vitale, non hanno retto ai radicali cambiamenti del clima, avvenuti nel Pleistocene recente, che·hanno invece favorito l'ascesa dell'uomo moderno e la sua conquista del mondo.
Attribuire all'uomo sulla Terra un destino illimitato nel tempo sembra contrario alle leggi della paleontologia. In uno strano libro (Dixon A., 1982) sono raffigurati gli animali del futuro che verranno dopo l'uomo. L'autore ritiene che l'uomo moderno pur con la sua straordinaria capacità di evoluzione culturale e di sviluppo di una autonoma conoscenza razionale, che lo ha condotto a grandi scoperte nel campo della scienza e della tecnica, sia destinato a subire la legge inesorabile delle specie tachiteliche e a scomparire, lasciando spazio a nuovi gruppi di animali, sempre che non abbia reso la Terra inabitabile, e questo dovrebbe avvenire in un lasso di tempo dell'ordine di 10.000 anni.
Un insigne paleontologo, Padre Theilard de Chardin, la pensa però diversamente. Tentando di riconciliare la scienza con la fede e per convertire i suoi amici scienziati tendenti all'ateismo, ha elaborato un sistema ricco di spunti poetici e di motivazioni spirituali, esposto in una serie di testi affascinanti.
Secondo Padre Theilard l'uomo, anche se è emerso dalla natura animale, a differenza degli animali tende a sviluppare misteriose facoltà di ordine spirituale, che lo spingono verso un polo di attrazione ultraterrestre , il Cristo cosmico o Punto Omega.
Non è perciò soggetto a seguire il destino delle specie tachiteliche, che conduce all'estinzione.
Del resto appare già nelle Sacre Scritture la convinzione che la fine del mondo non sia legata a fatti di natura biologica, geologica o cosmica ma a un evento, la parusia, ossia il ritorno del Cristo glorioso, che esce dal quadro delle realtà fenomeniche. Però il passaggio dal campo materiale e biologico a quello spirituale ipotizzato da Padre Theilard, appare poco chiaro e convincente, se non si ammette che, se pur nascosto, lo spirituale trascendesse la materia sin dalle origini.
Nella sua corsa verso il futuro la terra andrà certamente incontro ad eventi di carattere catastrofico. Permane la possibilità di uno scontro micidiale con asteroidi del tipo Apollo, una famiglia che dovrebbe contare un centinaio di oggetti di varia dimensione. La loro orbita interseca quella terrestre.
Il 31 marzo del 1989 un asteroide di questo tipo del diametro di 1km è transitato a 800.000 km dalla Terra, alla velocità di 70.000 km/ora. Nel 1937 un altro asteroide della famiglia Apollo, battezzato Hermes, anch'esso del diametro di circa un km, si spinse fino a 780.000 km dalla Terra, il doppio della distanza che ci separa dalla Luna. Si calcola che l'incontro con asteroidi tipo Apollo potrebbe avvenire ad intervalli dell'ordine dei 10.000 anni.
Le linee di giunzione tra le placche crostali nelle fasi di scollamento e movimento possono dar luogo a sismi di rovinosa intensità, come si teme da parte della faglia di Sant'Andrea in California. Ma in molte altre parti del mondo ci sono situazioni crostali di questo tipo.
Eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo possono arrecare grandi danni. Si calcola che il Vesuvio se entrasse in eruzione in tal modo,. come è accaduto in passato, farebbe forse più di un milione di vittime.
Però come ho ricordato nel capitolo precedente sono ancora gli uomini il peggior nemico della Terra. E' importante che si inverta questa tendenza pericolosa, è importante che gli uomini diventino gli amici della Terra, della loro Terra e diventino per davvero amici tra di loro.
Un filosofo cattolico del calibro di Jean Guitton ha detto: "Il terzo millennio dovrà essere profondamente religioso, fondato sul comandamento dell'amore, o non sarà".

Giovanni Charrier


venerdì 25 ottobre 2024

Storia di una mandibola di mastodonte

di Gualtiero Accornero

Torino, 20 settembre 2022

Descrivere un reperto fossile

Prima di iniziale questa bella storia, occorre precisare che in paleontologia, per valorizzare scientificamente un reperto fossile, è necessario che questo venga accompagnato da una "etichetta" descrittiva. Oltre alla data del ritrovamento ed il nome del suo scopritore, tale etichetta deve contenere l'indicazione esatta del luogo in cui è stato ritrovato. Solo attraverso a questo dato si può risalite al contesto geologico che è indispensabile per poter datare il reperto e risalire alla tipologia di sedimenti in cui il fossile si è formato.

Attraverso l'esame sedimentologico e paleontologico delle rocce sedimentarie che contengono un fossile (e solo queste di norma possono contenere dei fossili) è infatti possibile ricostruire l'ambiente originale in cui questo viveva. Anche la data del ritrovamento e il nome dello scopritore sono importanti in quanto permettono di collocare il reperto "storicamente". La mancanza di tutte queste indicazioni (specialmente quella della località) rende il reperto praticamente "inutile" dal punto scientifico che in effetti diventa solo un mero oggetto da esposizione.

La mandibola di mastodonte di cui si parla apparteneva a questa categoria di fossili "sconosciuti".

Due parole sui mastodonti

La parola "mastodonte", termine ormai scientificamente desueto, di valore indicativo e non sistematico, deriva dai termini in greco antico mastos e odon, e significa letteralmente "dente a forma di mammella", per la sagoma della corona e delle radici dei suoi molari. Il nome di questi proboscidato estinto fu introdotto dal grande naturalista francese George Cuvier (1768-1832). Questi esseri sono spesso raffigurati con un folto mantello lanoso, simile quello dei mammut, ma non esistono prove paleontologiche che lo affermino.

I mastodonti fanno parte di quella categoria di mammiferi detti pachidermi, termine che significa "dalla pelle spessa" (dal greco pakhýs = grosso, grasso e dérma = pelle), che accomuna animali non necessariamente imparentati tra di loro, come elefanti, ippopotami e rinoceronti, questa suddivisione non ha quindi valore tassonomico.

Sono animali estinti la cui scomparsa avvenne contemporaneamente a quella di molti altri animali appartenenti alla cosiddetta Megafauna del Pleistocene a causa dei grandi mutamenti climatici dall'era glaciale del Quaternario, specialmente nel Pleistocene superiore, durante il quale il clima in alcune regioni oscillò rapidamente di molti gradi centigradi.

Appartengono sistematicamente ai Proboscidati (ordine dei Proboscidea), come gli attuali elefanti, a cui erano molto simili. Dato che alcune forme erano molto grandi, nel tempo, il significato popolare del termine "mastodonte" è diventato d'uso per indicare un animale o un oggetto di grandi dimensioni, dando poi luogo all'aggettivo "mastodontico".

Vissero tra Pliocene e Pleistocene, principalmente nella parte orientale del Nord America, da qui deriva infatti il loro nome specifico Mammut americanum. Per questa denominazione la loro classificazione tassonomica può portare a confusione, appartengono infatti alla famiglia Mammutidae (rappresentata dal genere Mammut). Non sono però da confondere con i mammut, proboscidati più conosciuti, simbolo dell'ultima era glaciale, che invece appartengono alla famiglia Elephantidae e sono rappresentati dal genere Mammuthus.

In effetti tutti questi grandi mammiferi si assomigliano molto, ma differiscono in particolare nei loro grandi molari.

Nel nostro caso si parla di una mandibola del mastodonte chiamato Ananco, italianizzazione del genere Anancus (il termine anancus indica l'aspetto delle zanne dritte e significa appunto "senza curva") che è vissuto tra la fine del Miocene e l'inizio del Pleistocene in Europa, Africa e Asia. L'aspetto dell'Ananco richiamava moltissimo quello degli odierni elefanti, con i quali però non è direttamente imparentato.

Classificazione in base ai denti

Sono le caratteristiche dei molari che ci permettono di poter distinguere facilmente gli Elefanti dai Mastodonti.

Gli Elefanti attuali hanno due zanne, dette difese (denti mascellari che si sono modificati con l'evoluzione), e quattro molari (due superiori della mascella e due inferiori della mandibola) con cui triturano il cibo.

Col crescere dell'età i molari si consumano e vengono sostituiti con nuovi, più grandi dei precedenti, che lentamente spingono in avanti e in fuori i denti ormai consunti. Nella vita degli elefanti le dentizioni sono sei, finite queste i denti iniziano a consumarsi ed infine non sono più in grado di masticare il cibo, peggiorano il proprio stato e cadono in preda a malattie o ai predatori, e poi muoiono di fame.

Nell’uomo esistono solo due dentizioni, i denti spuntano dalla parte superiore della mascella e inferiore della mandibola, per sostituire quelli da latte, per poi crescere fino poi ad usurarsi con l'età. Anche noi, come negli elefanti, se non esistessero i dentisti, saremmo destinati a morire di fame.

I molari degli Elefanti

I denti degli elefanti nascono dal fondo della bocca e si spostano in avanti, come su un nastro trasportatore. Ogni molare è composto da una serie di "lamine" trasversali di smalto, poste una accanto all'altra. Nella loro vita producono sei serie di denti, con ogni serie che spinge in avanti dalla parte posteriore della mascella per sostituire i denti usurati nella parte anteriore. Finite queste sei dentizioni, i denti iniziano ad usurarsi.

I molari dei Mastodonti

La particolare dentatura dei mastodonti in effetti può considerarsi più "primitiva" di quella degli attuali elefanti e dei loro parenti estinti, i mammut. I loro molari, come riporta l'illustre Eugenio Sismonda (1815-1870), professore di Storia Naturale dell’Università di Torino e appassionato paleontologo, sono formati cadauno di un pezzo solo, presentano radici con un aspetto simile alle mammelle delle mucche (cosa che aveva e ispirato il Cuvier ad assegnarne il nome, come detto sopra), sono dotati di cuspidi (come i tapiri ed i maiali) ed erano più adattati al taglio che alla triturazione.

I disegni del Cuvier

Nella storica pubblicazione del Cuvier Recherches sur les ossemens fossiles de quadrupèdes - Tomo II del 1812, nella sezione Sur le Elephans Vivanns et Fossiles, in cui viene descritto il Mastodonte, compaiono questi due disegni di molari rispettivamente, a partire dall'alto, di Elefante attuale e di Mastodonte, che chiaramente permettono di identificare le differenze morfologiche delle due tipologie.

Molari fossili di Mammut e Mastodonte

Le differenze morfologiche tra i due molari sono chiaramente visibili in questi due fossili di Proboscidati del Pleistocene rispettivamente, a partire dall'alto, di Mammut (Mammuthus primigenius) proveniente dalle spiagge del Mare del Nord (Olanda) e Mastodonte, proveniente dalla Patagonia. Gli esemplari sono esposti nella collezione paleontologica del Museo di Storia Naturale Don Bosco di Valsalice di Torino.

I mastodonti del Piemonte

L'area del Piemonte, in particolare la zona dell'Astigiano, presenta la caratteristica di essere ricca di resti fossili di conchiglie marine che testimoniano l'antichissima presenza dal cosiddetto "Mare Padano" che, alla fine del Pliocene (circa 1,8 milioni di anni fa), si "ritirò" completamente lasciando posto alla pianura. Durante la fase di ritiro la futura Pianura Padana era caratterizzata da un clima caldo umido, con foreste e ambienti paludosi che potevano ricordare quello americano dei bayou della attuale Louisiana.

I fiumi provenienti dall'arco alpino, già praticamente formato e simile a quello attuale, buttandosi nel Mare Padano in fase di ritiro, creavano ambienti deltizi e paludosi a volte soggetti a fasi alluvionali. I sedimenti che si formavano nelle pianure alluvionali le troviamo descritti più avanti dal professor Sismonda quando riferisce della scoperta del Mastodonte nella sua pubblicazione: "... argilla quasi plastica coperto da altri strati di sabbia e di ghiaia".

Questa particolare serie di sedimenti costituisce quello che i paleontologi in un recente passato denominarono con termine di “Villafranchiano” che attualmente ha perso valore geologico e indica solo un ambiente particolare.

La parola deriva dal paese di Villafranca d'Asti, ed identifica una serie di strati sedimentari caratteristici di queste zone che hanno fornito fossili di mastodonti, ippopotami, rinoceronti (ricordo quelli ritrovati rispettivamente a Dusino e Roatto) e vegetali che testimoniano la presenza di un clima più caldo di quello attuale.

In passato i ritrovamenti di resti scheletrici fossili di mastodonti sono stati diversi. Quello più famoso riguarda due esemplari completi ritrovati nel 1881 a Ca’ dei Boschi di Valle Andona (Asti) che oggi si trovano al Museo Geologico e Paleontologico Giovanni Capellini di Bologna. Uno di questi, esposto nella sala Elefanti e Balene, lungo 7 metri e alto 3, costituisce da sempre un forte richiamo per i visitatori.

A fine Ottocento a Villafranca d'Asti nella cava di argilla Fornace R.D.B., oggi ormai scomparsa, al cui posto è stato installato un grande impianto fotovoltaico, fu recuperato un altro mastodonte classificato come Anancus arvernensis.

Esattamente il 9 aprile 1954, nella regione Roetto (o Rovatto), del comune di Mombercelli, in provincia di Asti, venne alla luce quello che fu battezzato come il Mastodonte di Mombercelli: si tratta di uno scheletro fossilizzato quasi completo di un Anancus arvernensis di piccole dimensioni.

Per quanto riguarda il territorio di San Paolo Solbrito, si ricorda il ritrovamento storico avvenuto nella metà dell'Ottocento, durante la realizzazione del tratto di ferrovia della Torino - Genova. Le operazioni di sbancamento e scavo tra Dusino e Villafranca, nella vallata del rio Traversola, presso il "villaggio Solbrito" (così al tempo era chiamato), portarono alla luce i resti dello scheletro quasi completo di un mastodonte. Non esistono purtroppo indizi sicuri per stabilire l’esatto punto di ritrovamento dello scheletro.

Eugenio Sismonda, professore di Storia Naturale dell’Università di Torino e appassionato paleontologo, sul finire del settembre del 1849, portò alla luce quel fossile straordinario, scoperto casualmente, che classificò come Mastodon angustidens (Cuvier 1806). Nella sua memoria del 1851 dal titolo Osteografia di un Mastodonte Angustidente, il professor Sismonda racconta quanto segue:

"La spoglia giaceva sopra uno strato di argilla quasi plastica coperto da altri strati di sabbia e di ghiaia, alla quale malaugurata giacitura devesi appunto il cattivo suo stato di conservazione; l’acqua infatti che da tanti secoli piovve e per altra via si radunò in quel sito, e che dopo aver attraversato gli strati di sabbia e di ghiaia non poté liberamente farsi strada attraverso quelli d’argilla, mantenne tanta umidità attorno al detto scheletro, che alla perfine le sue parti anche le più resistenti, come le zanne, i femori, gli omeri ecc. andarono quasi quasi in isfacelo, locché ne rese difficilissima l’estrazione, e ci fa di più lamentare la perdita di alcune delle ossa larghe, di cui ridotte in una specie di poltiglia osservai io stesso le tracce incorporate e sciolte, sto per dire, nel terreno medesimo".

Fortunatamente il recupero dello scheletro fu seguito da bravi geologi, infatti Sismonda scrisse: "se opera del caso è la sua scoperta, opera d’illuminato buon volere è quella che lo portò a salvamento. I lavori di scavo per liberare il mastodonte dai sedimenti che lo coprivano durarono venti giorni e quattro mesi ci vollero per pulire, essiccare e rinforzare le ossa per rimettere per quanto era possibile a suo posto migliaia di frantumi e, con singolare maestria, rendere questo scheletro nello stato in cui io lo descrivo".

Sismonda continua poi: "di quella specie fossile rinvenutasi venne annunziata al pubblico da vari giornali italiani e stranieri".

Il mastodonte di San Paolo Solbrito attualmente si trova nelle collezioni dell’ex Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Torino gestito dal Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino e purtroppo non è esposto al pubblico.

Lo storico mastodonte di San Paolo Solbrito. Disegno originale del Mastodon angustidens trovato alla fine del settembre del 1849 lungo la ferrovia tra Dusino e Villafranca, nei pressi di San Paolo Solbrito, descritto da Eugenio Sismonda nella sua memoria Osteografia di un Mastodonte Angustidente del 1851 (Memorie della reale Accademia delle Scienze di Torino, serie 2., tomo XII., 1852, pp. 175 - 245).


Il mastodonte di Ca' dei Boschi di Valle Andona. Scheletro del mastodonte completo ritrovato nel 1881 a Ca’ dei Boschi di Valle Andona (Asti) esposto al Museo Geologico e Paleontologico Giovanni Capellini di Bologna. Costituisce da sempre un forte richiamo: è esposto nella sala Elefanti e Balene, è lungo 7 metri e alto 3, si notano le lunghissime zanne.


Ritrovamento della mandibola del mastodonte di San Paolo Solbrito

Era esattamente sabato 24 agosto del lontano 1974. Già da qualche anno ero appassionato di paleontologia ed in procinto di iscrivermi all'università alla facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali per studiare seriamente le materie che amavo.

Un conoscente di Asti, che lavorava come impiegato nel piccolo Comune di San Paolo Solbrito, anche lui appassionato di fossili, mi segnalò che in una piccola cava di sabbia e ghiaia, nei dintorni del paese, i cavatori avevano appena estratto una mandibola di un mastodonte che era stata depositata in una stanza del Municipio. Il giorno dopo subito mi precipitai a San Paolo dove vidi in Municipio lo splendido fossile riposto in un angolo, appoggiato ad un termosifone e avvolto in alcun giornali. Si trattava di una mandibola probabilmente di Anancus arvernensis che era divisa in due parti, spezzata lungo a sinfisi mentoniera della mandibola stessa.

Al tempo, già consapevole dell'importanza del ritrovamento in quanto un vertebrato, dissi ai presenti che ero un appassionato di paleontologia, spiegai di cosa si trattava, che probabilmente risaliva al Pliocene superiore, e quindi consigliai vivamente al personale del Municipio di riporla in luogo sicuro e di avvisare le autorità della scoperta.

Mi riproposi di ritornare più avanti per fotografare il fossile, infatti qualche tempo dopo mi ripresentai dotato di fotocamera, ma nessuno ricordava che fine avesse fatto la mandibola: gli impiegati del Municipio non erano al corrente del fatto e non fui preso sul serio. Tornai a Torino molto deluso.

Di quel prezioso fossile se ne persero le tracce: demoralizzato pensai che fosse "scomparso" in qualche collezione privata. Appuntai però questo episodio nel mio diario di appassionato naturalista che tengo a partire dall'inizio degli anni Settanta dello scorso secolo, quando iniziai ad appassionami alla Paleontologia.

Riscoperta della mandibola del mastodonte

Passano 48 anni. Esattamente venerdì 13 maggio 2022, navigando su Internet alla ricerca di notizie su fossili di proboscidati del Pliocene del Piemonte, mi imbattei nel sito gestito dall'Ente di Gestione del Parco Paleontologico Astigiano in cui compariva un articolo della giornalista Laura Nosenzo dal titolo I mastodonti di San Paolo Solbrito. Con grande stupore lessi che parlava della scoperta di una mandibola di mastodonte che mi ricordava quella famosa del 1974 "scomparsa", infatti riportava in sintesi quanto segue:

"[...] tutto è nato dal ritrovamento, 13 anni fa [dicembre 2008] nel sottotetto del Municipio, di una parte della mandibola (spezzata in due parti forse a causa degli spostamenti) con due molari [...] L'allora sindaco Carlo Alberto Goria guadagnò il sottotetto del Municipio per recuperare le luminarie da allestire in paese e s’imbatté “in due ‘affari’ - mi racconta - sistemati per terra che attrassero la mia attenzione e mi indussero a portarli fuori, osservarli, spolverarli e farli conoscere al paese”. Il primo cittadino, appassionato di storia e paleontologia, aveva capito che quei due strani pezzi, ingombri di nessun valore per chi li aveva esiliati in solaio, erano nientemeno che due grandi molari di mastodonte.

[...] il sindaco Carlo Alberto Goria comunicò il ritrovamento alla Soprintendenza Archeologica del Piemonte e interpellò ex amministratori e concittadini per capire come i denti fossero finiti in soffitta. Qualcosa a poco a poco venne fuori, anche se non fu mai chiaro chi li avesse consegnati, e perché, in Comune [...] i molari furono ritrovati, verosimilmente intorno agli anni settanta del Novecento, in una cava di sabbia in Regione Monsotto; mancando un posto adeguato per accoglierli, Goria decise di renderli visibili a quanti si recavano in Municipio e, per garantire loro un’adeguata protezione, li sistemò nell’ufficio del sindaco".

Nel 2016 fu nominato nuovo sindaco, il Dott. Luca Panetta, che nel 2019 trasferì la mandibola dal suo ufficio alla sala del Consiglio Comunale dove ora è religiosamente custodita in una teca di vetro. Quanto riportato e la data calzavano a pennello con la mandibola che avevo visto quel sabato 24 agosto del lontano 1974. Inoltre la frase: mandibola (spezzata in due parti forse a causa degli spostamenti) fugò ogni dubbio: la mandibola era proprio quella!

La foto che era presente nel sito (che sotto riporto) poi mi permise di identificarla senza ombra di dubbio.



Foto della mandibola ritrovata di Anancus arvernensis dal sindaco Dott. Luca Panetta, divisa in due parti, spezzata lungo la sinfisi mentoniera, nella foto in basso si notano i tipici grandi molari del mastodonte.

La mandibola ritrovata

Grazie alle gentili indicazioni del personale del Municipio di San Paolo Solbrito riuscii a entrare in contatto con l'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria, ed a programmare un incontro in modo da poter fotografare la famosa mandibola. Ben 48 anni dopo il fatto, esattamente il 7 luglio 2022, finalmente conobbi il Dott. Goria, persona di gran cultura, scoprendo anche di avere interessi ed alcune amicizie in comune. Insieme riuscimmo quindi a ricostruire l'esatta storia del reperto fossile, il cui ritrovamento avvenne quasi sicuramente venerdì 23 agosto del 1974, mentre il sito in cui fu estratta era una piccola cava, ormai scomparsa, situata appena a sud della località detta Monsotto presso San Paolo Solbrito.

Si chiude qui la bella storia "paleontologica" della mandibola di mastodonte scomparsa e poi ritrovata.


La mandibola conservata nella teca

Nel 2019 il nuovo sindaco, il Dott. Luca Panetta, trasferì la mandibola dal suo ufficio alla sala del Consiglio Comunale dove ora è religiosamente custodita in una teca di vetro (in alto) in compagnia di un modellino che riproduce il mastodonte eseguito dal vicesindaco Riccardo Azoaglio che si è appassionato, nel tempo, al mastodonte ed ai suoi resti.

Nel particolare della mandibola del mastodonte (in basso),si nota che è spezzata in due parti di cui una si è in seguito ulteriormente frammentata. A fianco compaiono anche due fossili di bivalvi marini ritrovati in situ. La targhetta a destra ricorda la donazione della teca di vetro da parte dell'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria.




Tentativo di restauro

Nella foto in alto l'ex sindaco, il Dott. Carlo Alberto Goria, presenta una parte della mandibola da lui riscoperta in connessione anatomica. Attualmente si è preferito non eseguire ancora un restauro (come anche da me consigliato) prima di un preventivo consolidamento totale del reperto da parte di esperti. Nell'immagine in basso ho riportato una realistica ricostruzione del mastodonte (Anancus arvernensis) scaricata da Internet dove si notano le zanne diritte (il termine anancus indica infatti l'aspetto delle zanne e significa appunto "senza curva").






sabato 10 agosto 2024

Mario Valletta: ricercatore e rilevatore della Carta geologica d’Italia, docente e divulgatore delle Geoscienze.

di Anna Rosa Scalise

In occasione della ricorrenza dei 150 anni dalla nascita del Servizio Geologico d’Italia, voglio ricordare, a cinque anni dalla sua scomparsa, la figura di Mario Valletta che negli anni ’60, assunto come geologo rilevatore, si dedica con passione e orgoglio alle attività di rilevamento della Carta geologica d’Italia alla scala 1:100.000, che in quegli anni furono potenziate mediante uno straordinario stanziamento di fondi.


Nato a Valva (SA) nel 1936, Valletta si laureò in Scienze Geologiche nel 1959 presso l’Università di Napoli con il massimo dei voti e, dopo la laurea, frequentò nell’anno accademico 1959/60 a seguito della vincita di una borsa di studio la Scuola di Studi Superiori sugli Idrocarburi dell’ENI (ora ENI Corporate University). Nel 1961 entrò come precario al Servizio Geologico d’Italia e, nominato in seguito “Geologo capo”, vi rimase fino al 1981. Valletta raccontava - nel ricordare Alfredo Jacobacci - che allora al Servizio Geologico tra colleghi si era instaurato: “un sodalizio trasformato rapidamente in amicizia, cementata pure dallo spirito di corpo e dall'orgoglio di appartenere ad una storica e gloriosa Istituzione che, senza andare troppo indietro nel tempo, aveva avuto tra i propri ricercatori Francesco Scarsella, Giovanni Merla, Enzo Beneo e ne aveva del calibro di Attilio Moretti, Manfredo Manfredini e Alfredo Jacobacci”. […] “Spirito di corpo ed orgoglio di appartenenza che hanno rappresentato il motore che ha fatto sì che nell'arco di dieci anni fosse completata la Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000, nonostante un Comitato Geologico invadente e pretenzioso, sia lo straordinario “cemento” umano che ha amalgamato “ragazzi” di matrici universitarie diverse”.



Per quel gruppo di rilevatori a contratto, racconta anche Ernesto Centamore: “è stato un continuo stimolo per la ricerca di nuove prospettive, attraverso, innanzitutto, la collaborazione aperta con altri studiosi appartenenti ai vari Enti di ricerca, italiani e stranieri”. A quel gruppo di giovani precari appassionati appartenevano oltre a Mario Valletta e Bruno Compagnoni anche Ernesto Centamore che racconta: “fornirono la nuova linfa alle allora strutture anemiche del Servizio; tale entusiasmo contagiò anche i più giovani geologi di ruolo del Servizio stesso, fino ad allora rimasti in penombra”. Continua Centamore: “Si costituì, se così si può dire, una sorta di scuola non ortodossa e vincolante, priva di condizionamenti e libera di spaziare sul territorio senza legacci”. Nel primo decennio presso il Servizio Geologico, l’opera di Valletta fu caratterizzata da un’intensa attività di rilevamento, in varie aree del territorio italiano comprese in 9 Fogli della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:100.000: F. 188 (Gravina di Puglia); F. 124 (Macerata); F. 101 (Rimini); F. 100 (Forlì); F. 148 (Vasto); F. 130 (Orvieto); F. 155 (S. Severo); F. 173 (Benevento); F. 153 (Agnone); e dal contributo alla redazione delle Note illustrative della Carta Geologica d’Italia 1:100.000 del F.155 (S. Severo) e del F. 148 (Vasto). All’inizio degli anni ’70, quando furono attivati i primi rilevamenti della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000, Valletta collaborò ai rilievi di 4 Fogli geologici: F. 291 (Pergola); F. 301 (Fabriano); F. 373 (Cerveteri); F.433 (Ariano Irpino) e alla stesura delle Note Illustrative dei fogli: F.291 (Pergola); F. 373 (Cerveteri); F.433 (Ariano Irpino).
In seguito, coordinò le attività per la redazione della Carta idrogeologica d’Italia alla scala 1: 50.000 del F.291 (Pergola) e le relative note illustrative, che fu il primo foglio geotematico a tema idrogeologico.




In quegli anni partecipò anche alla “progettazione” ed alla realizzazione della Carta Geologica Regionale dell’Umbria alla scala 1: 250.000; alla realizzazione dei Fogli 1, 2, 3, 4 e 5 della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:500.000 e al compimento dei fogli: F. C6 Roma e del F. D6 Atene della Carta Geologica d’Europa alla scala 1:1.500.000 (UNESCO & Bundesanstalt für Geowissenschaften und Rohstoffe). Di quel periodo sono pure: il contributo alle ricerche sul Messiniano come responsabile di U. O. del P.F. Geodinamica del CNR; la collaborazione tra il Servizio Geologico e la Cassa per il Mezzogiorno relativa al rilevamento alla cartografia dei fenomeni di instabilità di un ampio settore della Calabria settentrionale e di varie aree della fascia nord-occidentale della Basilicata alla scala 1: 100.000 e della Carta litologica della Basilicata alla scala 1: 200.000.
Si impegnò inoltre alla realizzazione della Carta Tecnica della Puglia nell’area compresa tra la valle dell’Ofanto, le Murge, il torrente Locone e gli abitati di Barletta e Bari. Tra il 1977 ed il 1979 partecipò agli studi e alle ricerche condotti dai Servizi Geologici dell’Europa comunitaria sulla possibilità del seppellimento nel sottosuolo delle scorie radioattive a lunga vita e/o ad alta attività. Le risultanze di tali studi furono pubblicate nel volume: “Confinement geologique des dechets radioactifs dans la communautè europeenne”, edito nel 1980.
A seguito del terremoto in Irpinia del 1980 la sua attività si avviò nelle aree interessate dal sisma su richiesta del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, al fine di verificare i danni alla rete infrastrutturale indotti o inducibili da movimenti franosi riattivati a seguito del sisma e di analizzare la dinamica dei versanti in rapporto ai centri abitati nonché eseguire indagini finalizzate alle nuove scelte per la ricostruzione.
Nel 1981 nell’ambito della collaborazione attivata tra il Servizio Geologico e la Regione Campania, al fine di fornire un supporto tecnico operativo alle attività post sisma, Valletta si impegnò nella scelta delle aree idonee alla localizzazione di infrastrutture e/o insediamenti produttivi e nello studio dei movimenti franosi e/o di condizioni di potenziale instabilità nei territori di Calitri, Senerchia, Calabritto, S. Mango sul Calore e Castelfranci. Per quanto riguarda il movimento franoso di Calitri si occupò anche della valutazione delle proposte progettuali inerenti al consolidamento. Contribuì, inoltre, alle attività per l’esame di proposte progettuali relative ad insediamenti industriali e ad opere infrastrutturali nelle aree epicentrali del sisma del 1980 nell’ambito del Comitato Tecnico del Ministro per la Protezione Civile, nonché alle attività della Struttura del Commissario Straordinario di Governo per l’area comunale di Napoli.
Successivamente a seguito della crisi bradisismica dei Campi Flegrei del 1982-84, in qualità di membro della Commissione Tecnico scientifica, si interessò ai programmi di studio e di ricerca relativi a tale fenomeno.
Ulteriori impegni furono quelli della partecipazione alla redazione dei piani di bacino idrografico regionali e interregionali.
Nel 1984 iniziò la collaborazione con il “Centro di Morfologia Integrata per l’area del Mediterraneo” che, d’intesa con l’UNESCO, promuoveva studi in aree poco conosciute interessate da pericolosità geologica e sismica. L’area scelta per questi studi fu quella compresa tra i fiumi Ufita e Miscano, nella valle del fiume Calore (Campania). A questo progetto parteciparono Mario Valletta e Ugo Chiocchini nella veste di coordinatori della ricerca e Attilio Moretti, ex direttore del Servizio Geologico, nella veste di Presidente del Comitato scientifico. Laura Sacchi e io fummo subito entusiaste di partecipare al rilevamento geologico e geomorfologico di quelle aree e successivamente di approfondire le ricerche sulla stabilità dei versanti tra Melito Irpino (AV) e Orneta (AV) e sulla frana di Ariano Irpino (AV) del 29/06/88. Il lavoro svolto venne poi successivamente pubblicato nel Vol. XLII delle “Memorie Descrittive della Carta Geologica d’Italia” (1992).
Fu proprio in questo contesto che ebbi l’occasione di conoscere Mario, sia come figura umana che come professionista. Era una persona semplice, a volte ironica, non parlava molto ma aveva la caratteristica di metterti subito a tuo agio. Era un ricercatore instancabile e appassionato ed era sempre molto professionale; passammo tanto tempo insieme per eseguire le attività di campagna in quell’aree dell’Irpinia, nacque così una solida amicizia e una collaborazione duratura nel tempo anche per altre attività di ricerca svolte in vari luoghi del territorio italiano come quelle: sull’Acquifero minore della formazione della Daunia nell’ Appennino centro meridionale; sulle Forme calanchive a canne d’organo dei terrazzi marini del litorale tirrenico della Calabria settentrionale; sul Massiccio dei Monti Alburni: un lungo viaggio nella geodiversita’; sul Lago di Telese: un piezometro naturale; sui geositi di importanza comunitaria: Carsismo al Camposauro; sui Gessi del bolognese e i Calanchi dell’abbadessa; sul Contrafforte pliocenico bolognese; sulla sorgente di S. Susanna (Rieti, Italia centrale); sulla Componente biotica delle aree al contorno di geositi di importanza comunitaria; sulla proposta per l’istituzione di un vasto geosito per la protezione delle forme di erosione a canne d’organo del patrimonio geologico della Calabria; sui ricordi di Alfredo Jacobacci, Attilio Moretti e Pietro Bruno Celico.
Nel 1985, Mario fu nominato coordinatore del Settore Geologia della Regione Campania e in tale contesto si occupò della cartografia litologico-tecnica dei bacini idrografici e dei fenomeni di dissesto e delle condizioni di stabilità della penisola sorrentina nonché delle condizioni di Rischio della Collina dei Camaldoli. Partecipò alle ricerche del Gruppo Nazionale Difesa Catastrofi Idrogeologiche del CNR. La linea di ricerca - Eventi franosi a grande rischio - e l’Unità Operativa 2-34. In quello stesso arco di tempo, venne anche chiamato a far parte di vari organismi consultivi o di studio, tra i quali è da menzionare la Commissione incaricata dal Prefetto di Napoli di studiare il tragico evento franoso di Palma Campania del febbraio 1986. Nel 1989, fu incaricato di costituire e dirigere, presso il Servizio Ecologia della Regione Campania, il “Settore Tutela del Suolo e Sottosuolo”. Le prime ricerche relative a tale incarico si riferiscono all’inquinamento di vari corpi idrici utilizzati dall’acquedotto del Matese orientale, Monte Moschiaturo e Roccamonfina. All’inizio degli anni ’90 partecipò alle Commissioni di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) delle centrali elettriche del basso Garigliano e di Giuliano; della linea ferroviaria dell’Alta Velocità tra Roma e Napoli e successivamente fu nominato membro dell’Osservatorio ambientale in relazione alla realizzazione della stessa linea ferroviaria. In quel periodo si interessò anche degli studi sugli aspetti geologici dei territori ricadenti entro i Parchi nazionali del Cilento-Vallo di Diano e del Vesuvio.


Nel 1993, nell’ambito della ristrutturazione dell’Area Generale Ecologia e Tutela dell’Ambiente della Regione Campania fu incaricato alla direzione del “Servizio Sorveglianza Geologica” fino al 30 giugno del 1995, data delle dimissioni volontarie dal servizio. Il suo spirito irrequieto di ricercatore instancabile lo portò comunque a continuare le ricerche e gli studi intrapresi precedentemente relativi alle Aree Naturali Protette; in particolare si dedicò agli aspetti geologici, idrogeologici e geomorfologici di molte aree ricadenti nei Parchi regionali del Taburno-Camposauro, Monte Marzano-Monte Eremita, Monti Picentini e Monti Lattari. Lo studio fu poi pubblicato negli Atti del Convegno “Ambiente e Turismo: un equilibrio multimodale “Università della Calabria del 1994 e negli Atti del VII Congresso della Società italiana di Ecologia (S.I.t E.) del 1996.
Tra il 1996 ed il 1998 avviò una collaborazione con il Servizio Geologico d’Italia finalizzata ad un’analisi preliminare sull’inquinamento di vasti settori dell’Appennino meridionale della Calabria e dell’Appennino centrale e, successivamente nel 1999 allo studio degli aspetti idrogeologici della stabilità dei versanti e geologico-ambientali del Foglio 433 Ariano Irpino della Carta Geologica d’Italia alla scala 1:50.000.
Nello stesso periodo collaborò fino al 2002 con i ricercatori dell’Università Federico II di Napoli ad un programma di ricerche sugli aspetti idrogeologici ed idrogeochimici di ampi settori dell’Appennino meridionale, finalizzato ad individuarne la potenzialità e ad ottimizzarne la rete di monitoraggio.
A partire dell’anno accademico 1999-2000, Valletta fu incaricato come professore a contratto dalla Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi del Sannio di eseguire l’insegnamento di: “Geologia Ambientale” per il corso di laurea in Scienze Geologiche. Lo stesso insegnamento fu prolungato per gli anni accademici successivi fino al 2004 anche per i Diplomi Universitari in Geologia per la Protezione dell’Ambiente e Scienze Ambientali e per il corso di laurea in Scienze Ambientali ed in Scienze della Terra.
Dal 2005 al 2009, fu incaricato dal Consiglio della Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi della Tuscia a ricoprire l’incarico d’insegnamento a contratto di “Cartografia per l’Ambiente ed il Territorio” per il Corso di Laurea di I livello in Educazione e Divulgazione Ambientale e di “Litologia e Geologia” per il Corso di Laurea di I livello in Scienze Ambientali - indirizzo terrestre.
Negli anni successivi continuò la sua attività frenetica di ricercatore e di consulente scientifico nonché di coordinatore di vari progetti di ricerca, di organizzatore e di partecipazione a convegni/congressi e di divulgatore delle geoscienze. Tra le collaborazioni attivate in quel periodo sono da ricordare quelle con la TAV (Treno Alta Velocità), nell’ambito del progetto “Cultura d’impresa e apprendimento organizzativo”, per l’organizzazione e lo svolgimento di seminari relativi al monitoraggio dell’impatto di quell’opera sull’ambiente idrico sotterraneo e superficiale.
Con l’Università del Sannio nell’ambito del programma europeo NETWET 2 in qualità di coordinatore scientifico, dei programmi di ricerca relativi allo studio idrogeologico e alla inquinabilità di “bacini minori” nell’area della “Formazione della Daunia” Auct. Con il “Geoparco della Tuscia” come responsabile della ricerca, del rilevamento, dello studio e della schedatura dei “Geositi” dell’area del Parco e come componente del Comitato Scientifico.
Nel 2003, divenne socio fondatore e componente del Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana Geologia e Turismo (G&T) e in questa veste si impegnò sia alla “progettazione” che alla redazione dei primi 5 numeri del Notiziario dell’Associazione. Dal 2004 in poi, Valletta, contribuì con passione ed impegno all’organizzazione di vari convegni in qualità di membro del Comitato scientifico e del Gruppo dei referee del II Congresso di G&T (Geologia & Turismo), oltre che coordinatore dei contributi di vari “Gruppi di lavoro”; del III Congresso Nazionale G&T a Bologna (2007); in quella sede mise in debito risalto la Geodiversità relativa ad aree del Viterbese, del Sannio e del Salernitano; del IV Congresso Nazionale G&T di Bologna (2010), nell’ambito del quale fu coautore di vari contributi; del V Congresso di G&T (2013) del quale fu coordinatore e convener di una Sessione: “I luoghi del turismo geologico- dalla percezione del rischio alla divulgazione per la conservazione”; del Convegno Nazionale di Studio “Geologia e…mito” (2008) con la relazione introduttiva “Geologia e Turismo”: esempi nazionali ed internazionali. Dal dicembre 2007 fu consulente scientifico della Commissione “Area Risorse Naturali: Suolo”, istituita presso il Consiglio Nazionale dei Geologi; Nel 2009 fu membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana di Geologia Applicata ed Ambientale (AIGA) e membro del Comitato Scientifico organizzatore di Geoitalia 2009. Partecipò con impegno in un’indagine a tappeto sui “potenziali” Geositi del Geoparco della Tuscia nell’ambito di un Progetto Pilota. Occupandosi ancora di Geoparchi partecipò come convener del Seminario F2 “Geoparchi, Geoturismo e Sviluppo Sostenibile” nell’ambito dell’VIII Forum Italiano di Scienze della Terra, Torino (2011).
Nel 2011, fu nominato vicepresidente del Consiglio di Presidenza della FIST (Federazione Italiana Scienze della Terra). Prese parte ancora come Membro del Comitato scientifico in varie iniziative tese alla divulgazione delle Scienze della Terra: Convener della sessione “Geodiversità” nel ’86 Congresso della Società Geologica; della FIST relativo alla “Giornata di Scienze della Terra”; del Convegno “I Paesaggi del Vino 6”, Perugia (2011); della “Sezione” Geologia Ambientale, Geoturismo e Geositi dell’Istituto Euro Mediterraneo di Scienze e Tecnologia (IEMEST); della Rocca di Cerere European and Global Geopark; del IV Congresso Nazionale SGI – Sezione Giovani “Le Smart Cities si edificano sulla Geologia” Roma 2014 e chairman della Sessione “Dalla Terra alla tavola: Geositi e Geoturismo”; del V Congresso Nazionale SGI – Sezione Giovani “Uomo – Ambiente Fisico”, Pescara (2015) e di chairman della Sessione “Geoturismo”. Coordinò i Gruppi di Lavoro relativi a: “Geositi e Geoparchi”; “Viaggio di Goethe in Italia”; “Itinerari Geoturistici” e “Geologia e Termalismo”, iniziative promosse dalla Segreteria Generale dell’IYPE (International Year of Planet Earth) congiuntamente con G&T (Geologia e Turismo); prese parte alla realizzazione della Guida geologico – turistica del Monte Bulgheria; alla stesura di “Wine landscapes of Italy” del volume Geomorphological landscapes of the world, edita da Springer; Si prese cura inoltre, della preparazione di un volumetto destinato agli studenti delle scuole medie, finalizzato alla divulgazione delle Scienze della Terra: GeopiduMaremma – Il mio primo libro di Geologia (2015); e in seguito: GeopiduItalia (2017), e in cantiere: “GeopiduBulgheria” e “GeopiduMadonie”. Purtroppo, per un infausto destino fu colpito nel pieno delle sue attività tecnico-scientifiche e dopo un periodo di sofferenze fisiche e morali, il 23 marzo del 2019 dovette cedere alla ineluttabile sorte della natura umana.
Ed oggi, nel ricordo di Mario Valletta, si innalzi un augurio di “Pax Domini” per un uomo buono ed intelligente che nella vita è stato profondamente amante della propria famiglia.
Cosa dire ancora, caro Mario: “grazie, è stato entusiasmante lavorare con te“ e nel porgerti l’estremo saluto: Ti sia tanto, tanto lieve la terra, amico e maestro.